L’America di Trump ha preso un virus Talebano e Cristoforo Colombo è in evidente pericolo. Prima ci sono stati gli abbattimenti delle statue di Buddha di Bamiyan, in Afghanistan: una era alta 38 metri e risaliva a 1.800 anni fa, l’altra era alta 53 metri e aveva 1.500 anni. Ma quelli che nel 2001 le avevano fatte saltare erano Talebani. Dal nostro punto di vista occidentale, null’altro che barbari incivili. Peggio per loro: in futuro avrebbero avuto semplicemente molti meno turisti.
Da Saddam a Palmira
Poi è toccato alla statua di Saddam Hussein a Bagdad, nel 2003. E i responsabili dell’abbattimento sono stati i soldati americani. Ma dai, Saddam era un dittatore sanguinario e la statua era completamente priva di pregio. “Bene così!” avevamo detto tutti assieme. Nel 2015 è la volta dei gioielli siriani di Palmira. E tutti abbiamo odiato l’Isis che li prendeva a picconate in diretta streaming. Ma anche in questo caso si trattava di tagliagole, barbari esecrabili. E abbiamo pensato che nel corso della Storia c’erano sempre stati, a partire dalle invasioni barbariche che avevano devastato Roma antica.
Tocca al generale Lee
Quando, recentemente, chi discuteva di rimuovere, abbattere o imbrattare statue erano gli americani, coloro che, a torto o a ragione, sono (e si sentono) gli eredi dell’impero romano, i capifila e direttori d’orchestra dell’Occidente buono, virtuoso e progressista, invece ci siamo rimasti male.
Ma in questo caso i bersagli erano il generale Lee e gli altri eroi sudisti. Che distruggano pure i monumenti dei loro militari, rei di aver difeso lo schiavismo. In fin dei conti si tratta sempre di un problema interno. Quando andremo ad Atlanta sulle orme ormai stinte di Rhett Butler e Rossella O’ Hara di Via col vento e non troveremo più la statua di Lee, ce ne faremo una ragione.
È la volta di Italo Balbo
Ma la furia iconoclasta statunitense sta cominciando a toccare anche noi: “Via il monumento ad Italo Balbo“, titolava la Repubblica qualche giorno fa con un articolo da Chicago. Confessiamo la nostra ignoranza, ma non sapevamo neppure che la capitale del Michigan vantasse un’effige del gerarca trasvolatore, al centro di una “Balbo Drive” (e immaginiamo le reazioni scomposte della Boldrini quando lo ha scoperto).
Cristoforo Colombo imperialista?
Ma ora tocca al nostro mito forever, Cristoforo Colombo. Fin dai primi giorni delle elementari il nostro acerbo Dna è stato rinforzato dal mito delle tre caravelle, del grido “terra, terra”, della partenza da Palos, dell’uovo di Colombo, della regina Isabella. Una fantastica storia che mescolava ardimento, intelligenza, forza. E che poneva noi italiani nella comoda situazione di coloro che, se erano stati pesantemente aiutati dagli Stati Uniti nell’ultima guerra mondiale e nella successiva ricostruzione, però potevano sempre dire: “senza noi italiani sareste ancora accampati sotto le tende degli Indiani”.
Un mito nella polvere
E quanto ci piaceva vedere i servizi dei “Columbus day”? La banda dei Carabinieri che suona “Rosamunda” a Times Square, i bersaglieri che corrono sulla quinta strada tra l’entusiasmo generale, Pavarotti a cavallo che viene ricoperto dai pezzetti di carta come se fosse stato un astronauta tornato dallo spazio.
Basta. Finito. Colombo nella polvere. Statue imbrattate, mutilate, prima di essere rimosse e abbattute. A Los Angeles abolito il Columbus day, a Detroit e Baltimora decapitato il busto del navigatore genovese. A New York il sindaco De Blasio replica “discriminatorio abbattere il monumento di Columbus Circle”. La festa nazionale però sarà sostituita da una che celebrerà i “nativi” (noi lo traduciamo con “indiani d’America”).
Le due voci dell’America
La colpa? Oggi per loro Colombo è stato un colonizzatore imperialista, uno sterminatore di popoli pacifici dei Caraibi. E intanto a Houston, in Texas, la sua statua è stata imbrattata col sangue. Ma cosa sta succedendo? Questa furia ci stupisce soprattutto per chi la attua: il popolo che con i suoi film, i suoi libri, i suoi leader, ci ha trasmesso idee di tolleranza, di inclusione, di convivenza pacifica, soprattutto di democrazia. Ricordiamo che per anni, e fino all’altro ieri, gli States ritenevano di avere la missione sacra di esportarla in tutto il resto del mondo. Ma esiste ed è sempre esistita un’America profonda (più o meno quella che ha eletto Trump) che ha sempre ragionato con la pancia. Quella che linciava invece di processare i delinquenti, quella che – in divisa – pestava i neri per strada, quella che ha inventato il lager di Guantanamo.
Due Americhe, quella di Kennedy, Martin Luther King e Obama e quella becera dei Bush e di Reagan. E oggi, settembre 2017, l’America di Trump è tornata a parlare con la voce peggiore.
Massimo Solari è avvocato cassazionista e scrittore. Ha pubblicato diversi volumi sulla storia di Piacenza e alcuni romanzi. Ha tenuto conferenze e convegni sulla storia di Piacenza. Ha collaborato con le riviste Panoramamusei, L'Urtiga, e scrive sul quotidiano Italia Oggi.