A Bologna la toponomastica partigiana cambia: via il riconoscimento di “patriota” (e altri) per i caduti della Resistenza, a cui siano intitolate vie della città felsinea. D’ora in avanti, sulle targhe commemorative, il loro nome sarà accompagnato solo dall’epiteto “partigiana” o “partigiano”, senza altre attestazioni. Così ha stabilito la giunta comunale, capitanata dal sindaco Matteo Lepore.
Perché occuparsi di una notizia di pertinenza locale, nonché per certi versi di natura burocratica? La risposta non dipende dal fatto che Bologna sia pur sempre capoluogo di regione, storica città universitaria e campionessa nazionale di qualità della vita. Bologna è anche il centro politico e sociale di un mondo, quello della sinistra comunista e post-comunista italiana, che si è sempre fatto vanto dell’eccellenza amministrativa raggiunta in queste zone del Paese.
Si sa, però, che l’erba cattiva cresce insieme a quella buona; così, accanto all’amministrazione efficiente, da quelle parti è fiorita rigogliosamente anche la malapianta dell’ideologia. Di quale ideologia si tratti, quando ci si mette a guardare di sbieco la patria e i patrioti, è ciò che vorremmo provare a scoprire, sotto questo curioso caso di cronaca.
I partigiani, patrioti del loro tempo
Diamo per scontato l’aspetto propriamente burocratico della vicenda, cioè una semplificazione e razionalizzazione della toponomastica urbana. Il proliferare di titoli, abitudine dalla non troppo vaga ascendenza spagnola, è ormai superato nel costume diffuso tanto ufficiale, quanto ufficioso. Per non parlare di come sia sempre caduto sotto gli strali della satira.
La portata ideologica della scelta del sindaco Lepore consiste, in misura eclatante, nell’esclusione dell’associazione del titolo di “patriota” a quello di “partigiano”. Il che non significa, probabilmente, la negazione del patriottismo, insito nella scelta della resistenza anziché in quella della collaborazione, insieme ai fascisti, con gli occupanti stranieri. Semmai, significa che partigiano assorbe patriota.
Il che equivale a dire: il partigiano era l’autentico patriota del suo tempo. Tant’è vero che, dagli storiografi interpellati dai media in merito al caso bolognese (per lo più, assai contrari alla scelta dell’amministrazione Lepore), è stata sovente richiamata la distinzione tra patrioti del “primo” e del “secondo” Risorgimento, essendo i primi i fautori dell’Unificazione nazionale e i secondi quelli della Liberazione. Possibile, allora, che il problema sia solo la ridondanza delle qualifiche? I più, ovviamente, pensano di no e noi con loro.
Antipatia per Meloni, FdI e sovranismo
Si sa, infatti, che “patriota” è, insieme a “nazione”, una delle divise linguistiche preferite da Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia. Tanto basta per farne un feticcio contro cui scagliarsi a testa bassa, in ossequio alla vulgata anti-legittimista: quella, per intenderci, cara a quanti tacciano la presidente del Consiglio e il suo movimento di (neo)fascismo. Ergo, di incompatibilità con la Costituzione: il governo incostituzionale, il colmo per la “patria del diritto” quale (nostro malgrado) siamo chiamati.
Non è solo una questione nominalistica e storicistica (“vagamente” datata). C’è anche la questione del sovranismo, imputata alla destra di governo. Cioè, la rivendicazione della sopravvivenza della sovranità nazionale, sia pure diversamente declinata, come esigono le lezioni impartite dalla storia riguardo ai nazionalismi e la necessaria dimensione europea.
A questo proposito, «l’Europa delle patrie» non è una trovata di Ignazio La Russa o Francesco Lollobrigida, ma nientemeno che di uno dei massimi statisti del secolo scorso, il generale Charles de Gaulle. Absit iniuria, azzardare simili paragoni. Intendiamo solo rammentare che il federalismo europeo (che sfidiamo chiunque a definire altrimenti, allo stato, se non chimerico) è semplicemente una delle ipotesi istituzionali sul futuro meno prossimo dell’Unione europea. E per inciso neanche la più probabile.
Il demone della divisione
Dunque, perché una simile iconoclastia verso i termini “patria” e “patriota”, in quel di Bologna? Basta a spiegarla la scomunica del politically correct a carico del sovranismo? Ovvero, è sufficiente a giustificarla la sedicente superiorità morale della sinistra (non solo di radice marxista), sbattuta in faccia a chiunque ad ogni piè sospinto? Secondo noi, no. Per arrivare al dunque, non possiamo non visitare il nostro male nazionale più radicato: il demone della divisione.
Noi siamo divisi. La citazione è facile: “Noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”. È il Canto degli Italiani, l’Inno nazionale della Repubblica Italiana. Scritto da Goffredo Mameli e musicato da Michele Novaro nel 1847, in piena temperie risorgimentale, fu scelto come inno di fatto nel 1946 e di diritto nel 2017. Dalla sua composizione, sono passati quasi due secoli, ma la nostra propensione alla divisione è più simile a quella del tempo dei guelfi e dei ghibellini, che non a quella dell’Italia immediatamente preunitaria.
Noi non possiamo, noi non vogliamo riconoscerci vicendevolmente. Quindi, ogni occasione è buona per contrapporci. Il 25 aprile, l’8 settembre, il 4 novembre, le ecatombi di chi prova ad entrare nel Paese via mare, il delitto Regeni, il rialzo dei tassi d’interesse deciso a Francoforte, la trasferta napoletana vietata ai tifosi tedeschi dell’Eintracht: gli italiani sono sempre gli altri. E sono sempre illegittimi, indecenti e peggiori dell’Italia.
Gli altri sono l’inferno
È un problema, questo, o no? Per esempio: il 2 giugno non sarebbe meno divisivo, come ricorrenza nazionale, del 25 aprile, ricordando tra l’altro anche il voto alle donne? E poi: il 25 aprile, perché dev’essere celebrato più come vittoria di una parte sull’altra della guerra civile (che effettivamente c’è stata), che non come liberazione dal tedesco invasore? Pur di continuare a dividersi, brandendo le armi ideologiche di 80 anni fa, a Bologna omettono il titolo di patrioti ai partigiani, perché sono terrorizzati al pensiero che non sia più la scelta di campo, di parte appunto, la stella polare che li guida.
Il partigiano è l’uomo di parte, della parte che ha (o è?) ragione, contro quella che ha (o è?) torto. Sia chiaro: che chi fece la Resistenza avesse ragione e chi militò sotto le insegne della Repubblica Sociale avesse torto, non è minimamente in discussione. Se però noi non dovessimo guardare finalmente avanti, gli italiani continuerebbero a restare gli altri. E, per rimanere a sinistra (ad un certo livello), si sa cosa diceva Jean-Paul Sartre degli altri: sono l’inferno.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.