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Il caso di Brescia: se picchiare la moglie è un “fatto culturale”, qualcosa non va nella magistratura

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Brescia, grande scandalo (forse non senza motivo): un sostituto procuratore della Repubblica domanda il proscioglimento di un imputato bengalese, accusato di maltrattamenti fisici e psicologici in danno della moglie (cittadina italiana delle medesime origini), perché nella loro cultura di provenienza funziona così.

La vicenda presenta due profili di macroscopica e grave originalità. Il primo, il più evidente, è anche quello che merita una precisazione. Stiamo parlando della surreale motivazione, posta dal Pm Antonio Bassolino a fondamento della sua richiesta di assoluzione. L’altro profilo stravagante, di cui difficilmente avrete sentito parlare altrove, è la situazione in cui versano l’ordinamento giurisdizionale e l’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Ci riferiamo ai contenuti della presa di distanze del Procuratore capo di Brescia, Francesco Prete, dall’operato del suo sostituto.

Imputazione coatta e processo “ibrido”

Andiamo con ordine e cominciamo dalla richiesta di proscioglimento. Prima, però, s’impone una premessa. Deve essere chiaro come la precisazione seguente, che ci sembra opportuna, non implichi da parte nostra alcuna attenuazione dello sconcerto, unanimemente palesatosi a fronte della richiesta del rappresentante dell’accusa.

Nel caso in questione, si è arrivati a processo per decisione del Gip di Brescia, al termine delle indagini, quando la pubblica accusa aveva già presentato istanza di archiviazione. È l’istituto dell’imputazione coatta. Si tratta di una deroga al principio per cui l’esercizio dell’azione penale compete esclusivamente ai magistrati del pubblico ministero. Il Giudice per le indagini preliminari può rifiutarsi di emettere il decreto di archiviazione, come richiesto dal Pm e ordinare a quest’ultimo di formulare, a carico dell’indagato, uno o più capi d’imputazione determinati, mandandolo a processo.

Il nostro sistema processuale penale, nonostante le riforme legislative e costituzionali della fine del secolo scorso, non è autenticamente accusatorio. Il modello processuale nazionale, infatti, mantiene corposi elementi e aspetti inquisitori. La facoltà d’imputazione coatta è uno di questi.

Impuntatura o dubbio di diritto?

E meno male, verrebbe da dire, almeno in questo caso. In effetti, se non ci fosse stata la facoltà d’imputazione coatta, il soggetto in questione non sarebbe arrivato in qualità d’imputato al dibattimento, perché la Procura della Repubblica di Brescia ne aveva già domandato l’archiviazione. Richiesta che, semplicemente, il rappresentante dell’accusa ha riproposto in sede dibattimentale. Una scaramuccia processuale tra magistrati, dunque? Possibile, anche se, per quanto sia difficile accettarlo, dobbiamo ritenere che il sostituto procuratore abbia sostenuto la non colpevolezza dell’imputato solo perché convinto dell’insussistenza del dolo, da parte sua, di ledere i diritti della moglie. Il dolo, come elemento psicologico, è un elemento essenziale delle fattispecie penali delittuose.

Sorge spontanea, comunque, una domanda: come mai l’originaria richiesta di esonero da responsabilità penale per l’ex marito bengalese violento non aveva destato scandalo? I fatti sono gli stessi, le persone anche, la procura e il tribunale pure. Dunque, come mai non se ne era già parlato? È stata solo fortuita la sequenza scandita prima dal disinteresse e poi dallo scandalo? Prendere atto della circostanza, in ogni caso, è un esercizio di riflessione da non trascurare, anche per gli addetti ai lavori dell’informazione.

Il comunicato di Prete

Rimane da dire della Magistratura e dell’esercizio della giurisdizione da parte sua. Queste due realtà sono illustrate abbastanza fedelmente dal comunicato emesso dal procuratore capo di Brescia, il dottor Francesco Prete, dopo il deflagrare delle polemiche, politiche e mediatiche. Vale la pena riportarlo integralmente.

«In merito agli articoli di stampa relativi alle conclusioni rassegnate dal Pm nel processo a carico di Hasan Md Imrul, faccio presente che queste, in base alle norme del codice di procedura penale (art. 53) e dell’ordinamento giudiziario (art. 70), non possono essere attribuite all’ufficio nella sua interezza, ma solo al magistrato che svolge le funzioni in udienza. Questa Procura della Repubblica ripudia qualunque forma di relativismo giuridico, non ammette scriminanti estranee alla nostra legge ed è sempre stata fermissima nel perseguire la violenza, morale e materiale, di chiunque, a prescindere da qualsiasi “riferimento culturale”, nei confronti delle donne. Le richieste di ispezioni ministeriali tese a verificare tale assunto ci lasciano assolutamente tranquilli, essendo tutti i magistrati dell’ufficio sicuri di avere sempre agito nel rispetto della legalità, secondo i parametri fornitici dalla Costituzione e dalla legge».

Autoreferenzialità e insindacabilità

Prima di tutto, Prete ricorda che in Italia la Magistratura, compresa quella requirente, è un potere diffuso, tale per cui ogni magistrato è come una monade della filosofia di Leibniz. Ciascun magistrato è la Magistratura in quanto tale e gode delle intere sue prerogative costituzionali, tutte riassumibili nell’insindacabilità. Ricordiamocene, quando dovessimo trovarci a difendere lo status quo.

L’autoreferenzialità dei magistrati è tale, per cui il capo dell’ufficio dice che le funzioni esercitate da un suo collaboratore non sarebbero riferibili all’ufficio nel suo insieme, né a lui che lo dirige. Non basta. Infatti, dopo avere ribadito che la procura di Brescia non ammette impossibili scriminanti culturali delle violenze fisiche e morali, conclude di non avere niente da temere perché tutti i magistrati dell’ufficio sono sicuri di essere nel solco della Costituzione e della legge. Come chi guardava il serpente innalzato da Mosè nel deserto era salvo, così alcuni invocando la Costituzione dicono altrettanto. Ormai il gioco mostra la corda, ma in Italia riesce più facile arrangiarsi che reagire.

L’assetto della Magistratura 

In conclusione, sul caso di Brescia l’ipotesi più probabile ci sembra quella della schermaglia tra uffici di magistrati. Tu, Gip, mi costringi ad andare a processo e io, Pm, ribadisco comunque l’irrilevanza penale del fatto. Se così non fosse, peggio sarebbe in entrambe le altre ipotesi. Vale a dire, sia che il sostituto procuratore pensi che si possa fare soprusi alla moglie senza volerne comprimere i diritti, sia che ritenga che integrare gli stranieri significhi tollerarne le pratiche quali che esse siano. Resta, sullo sfondo, un problema di assetti della Magistratura e della giurisdizione, che non fa sensazione come la cronaca, ma talvolta ne origina casi eclatanti.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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