Campo largo del centrosinistra: Elly Schlein riabbraccia Matteo Renzi (così, almeno, pare e tutto lascia intendere), mentre l’Italia rischia di non sottrarsi all’abbraccio della vecchia e mai sepolta politica. Qui ci occuperemo del polo progressista e delle ultime mosse fatte sul suo scacchiere dopo le Europee del giugno scorso.
Un’occhiata, però, non possiamo fare a meno di darla anche ai cronici travagli del centrodestra, oggi maggioranza parlamentare e di governo. Pure in questo campo, quantunque con solchi (apparentemente) meno profondi e trascurando i tormenti del ministro “innamorato” Sangiuliano, il demone del particolarismo fa sì che l’assetto coalizionale trasformi la vita politica in una perenne propaganda di marcamento e smarcamento tra alleati, con inevitabili ripercussioni negative sulla stabilità dell’Esecutivo. Solo tenendo presente questa comune tentazione di fondo, potremo capire perché tanto l’embrassons-nous tra Schlein e Renzi quanto i vertici di maggioranza Meloni–Salvini–Tajani siano egualmente d’inciampo verso l’approdo ad una politica intesa più come servizio al Paese, che non come arte che serve a chi la fa.
Acqua e olio non stanno insieme
Si diceva di Schlein e Renzi. Lasciamo, dunque, per un momento da parte Conte, Calenda, Fratoianni e Bonelli, Bonino, Magi, Della Vedova, e così via. Li lasciamo da parte per modo di dire, perché, salvo i vecchi Radicali un po’ dispersi ma sempre sotto i riflettori, tutti questi signori rappresentano formazioni politiche di varia dimensione, ma certo imprescindibili come addendi da sommare per provare a vincere le elezioni.
Schlein è, o meglio dovrebbe essere, l’anti-Renzi in persona. Il Pd l’ha eletta segretario, votata soprattutto da non iscritti al partito (!), per virare politicamente in senso opposto alla direzione impressa a suo tempo dal Fiorentino, quando questi era stato presidente del Consiglio (2014-2016) e a sua volta segretario a Largo del Nazareno (2013-2018). Dal punto di vista di Renzi, Schlein è (dovrebbe essere, scusate) anche peggio: infatti, rappresenta il punto di caduta tra la vecchia “ditta” dalemiana e bersaniana e le istanze pentastellate; oltre, naturalmente, al trait d’union con tutte le vecchie constituency della sinistra nazionale (Magistratura democratica, La Repubblica, Cgil, Anpi, Arci).
I non-detto, equivoci e simulazioni
Date queste premesse, al dunque (cioè in caso d’intesa), vorrebbe dire che tutti e due avevano mentito in passato, ovvero che lo stanno facendo adesso. Diciamo che ci sembrano vere entrambe le ipotesi menzognere, se potessimo concederci l’ossimoro. Renzi scelse la sinistra, a suo tempo, per un insieme di ragioni casuali (è di Firenze, storica roccaforte rossa) e calcolate: il Pd (erede del Pci, della sinistra della Dc e dell’azionismo repubblicano) è il partito dell’establishment, sicché per un ambizioso che andava molto di fretta era un mezzo obbligato. Renzi, però, tutt’al più è un socialdemocratico liberale, mentre la prima e l’ultima battaglia del Pci furono combattute addirittura contro i socialisti! Adesso, 10 anni dopo, con l’altra coalizione a trazione Meloni (destracentro), l’opzione del Fiorentino per il “campo largo” è senza alternative.
Schlein, per parte sua, doveva fare la pro-5 Stelle e dunque l’anti-Renzi. Tuttavia, le è senz’altro bastato poco per capire che l’ex presidente del Consiglio ha rappresentato, in un dato momento, il leader necessario all’allora loro comune partito. Il suo piglio e la sua sfrontatezza erano quanto serviva per riconvertire l’ideologia e passare dalla lotta di classe all’ossessione per i “diritti”. Non a caso, le unioni civili (nozze senza nome) le ha fatte approvare proprio il vecchio scout di Rignano. Oggi, la segretaria del Pd è obbligata a fare credere (e prima di tutto deve auto-convincersi) che solo non lasciando indietro alcuna componente non disponibile all’alleanza avversaria si possano coltivare ambizioni di vittoria alle prossime Politiche.
Devoti al regime, dove tutti…
Quello su cui, senz’ombra di dubbio, Schlein e Renzi concordano è la devozione al regime politico che c’è in Italia. Oh, certo: il Fiorentino a suo tempo ha fatto finta di volerlo cambiare, ma la sola fine del rapporto fiduciario tra Senato ed Esecutivo (unico elemento di reale novità della proposta bocciata dal referendum del 2016) non sarebbe bastata minimamente per riuscirci. Renzi s’intestò la riforma costituzionale e la sfida referendaria solo per dare un senso alla XVII Legislatura, che lo aveva issato a palazzo Chigi. Se fosse stato sincero nel puntare su un modo diverso di concepire e fare la politica, non sarebbe andato al governo senza passare per le urne e non avrebbe fatto un gruppuscolo in Parlamento per gemmazione dal Pd.
Schlein, va da sé, è incatenata alla “Costituzione più bella del mondo”. Finge di non sapere che, se è vero che con le migliori intenzioni si può fare funzionare qualsiasi assetto istituzionale, è altrettanto vero che un regime che corregge i difetti del Paese è preferibile ad un altro che li esaspera.
Gli accordi possibili e gli italiani
Non sappiamo come finirà la telenovela Schlein-Renzi, cioè Pd-Italia viva: siamo già rimasti scottati nell’estate del 2022, quando da un momento all’altro Carlo Calenda prima si era accordato con Enrico Letta e poi ci aveva ripensato, facendo cartello proprio con Renzi per prendere poco meno dell’8% a settembre. Non sappiamo nemmeno se e quanto sia attendibile il sondaggio commissionato dal Fatto Quotidiano (organo semi-ufficiale del Movimento 5 Stelle), secondo cui in caso di alleanza con il Fiorentino il Pd perderebbe 1 elettore su 4 e tutto il “campo largo” rischierebbe una fuga dalle urne dei suoi potenziali sostenitori.
Diciamo così: se un’aggregazione liberaldemocratica (il centro di cui sentite parlare sarebbe questo, il cattolicesimo non c’entra più niente) non dovesse formarsi prima delle prossime elezioni, probabilmente un accordo si farà, magari nella forma meno vistosa di desistenze mirate. Diversamente, si spererà di accordarsi dopo, in caso di maggioranze traballanti e di trasformismi manovrati e benedetti dalle sacrestie istituzionali. Schlein, comunque e con lei il Pd non hanno la minima intenzione di liberarsi di Renzi, costringendolo a ritirarsi veramente dalla politica, ovvero a rientrare da solo nel partito per fare davvero il semplice senatore.
E gli italiani? Sì, perché che in politica politicante ci si sostenga tutti (alleati, avversari e persino nemici) è questione anche solo di spirito di colleganza. Il centro di Renzi e altri, però, ha bisogno di diverse centinaia di migliaia, o meglio di qualche milione di elettori. Fintantoché ci saranno, vorrà dire che amiamo una politica debole, ripiegata su se stessa e che non si sogna di governarci: “Hic Rhodus, hic salta”.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.