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Carceri italiane tra suicidi e sovraffollamento: la reclusione oggi è una pena umana?

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Carceri italiane: il 2023 è un nuovo anno nero per i suicidi entro le mura penitenziarie. A oggi, metà d’agosto, si contano 47 persone che si sono tolte la vita mentre erano detenute a vario titolo. Nell’intero 2022 erano state 85, il record dal 1990: una ogni 4 giorni e mezzo; con un’incidenza 20 volte superiore a quella riscontrata nella popolazione generale. Siamo, dunque, su una strada simile, cioè analogamente tragica.

Non dimentichiamo, infatti, che in rapporto alla prigione non decidono di farla finita solo le persone direttamente private della libertà personale; ma anche alcuni componenti del corpo di Polizia penitenziaria. Si tratta di lavoratori, donne e uomini, che s’interfacciano quotidianamente con i drammi delle carceri e il dramma-carcere. Nel corso degli ultimi 12 anni (2011-2022), sono stati complessivamente in 78, tra loro, a compiere il gesto estremo.

I suicidi di Torino

Il dramma penitenziario viene ciclicamente e vanamente riportato sull’altare delle cronache da gesti particolarmente eclatanti; ovvero da episodi che casualmente si verificano consecutivamente, addirittura nella stessa struttura. È stato quest’ultimo il caso, lo scorso 12 agosto, di due detenute del Lorusso Cotugno di Torino (già carcere Vallette). La cittadina nigeriana 43enne, Susan John, che è morta per conseguenze di inedia auto-indotta (18 giorni di rifiuto di acqua, cibo e medicinali); e l’italiana 28enne Azzurra Campari, impiccatasi con un cappio artigianale.

Le proposte di Nordio

La casa circondariale piemontese è stata subito visitata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, responsabile dell’amministrazione penitenziaria. Il Guardasigilli, commentando i fatti torinesi, ha rilanciato due sue proposte: l’aumento delle occasioni di contatto a distanza per i detenuti con i familiari; e il ricorso all’adattamento di edifici dismessi del demanio militare, per cercare di attenuare e possibilmente risolvere l’atavico problema del sovraffollamento delle carceri.

Il surplus 

Ricordiamo che, al 31 dicembre 2022, la popolazione carceraria eccedeva di quasi 5mila unità la capienza regolamentare (56.196 presenze, a fronte di 51.328 posti disponibili). Per capienza regolamentare s’intendono 9 metri quadrati per singolo detenuto e 5 mq in più per ciascun altro. Nel totale della popolazione carceraria sono ricompresi anche i soggetti in regime di semilibertà.

Mancanza di risorse…  

I sindacati della Polizia penitenziaria non hanno mancato di rintuzzare le proposte ministeriali, additando il vero problema non tanto nella mancanza di spazi, quanto in quella di un numero sufficiente di personale. Secondo loro, l’organico è sottodimensionato e mancano le risorse; anche soltanto per l’ampliamento delle possibilità di comunicazione dei detenuti con i familiari, pure auspicato dal ministro Nordio.

…e impopolarità

Come sempre, tutte o quasi le considerazioni che vengono svolte, nel dibattito politico e civile, colgono aspetti rilevanti del problema. Il tema carcere, però, è abbastanza particolare. Nel senso che è difficile da trattare anche ricorrendo a classici luoghi-comuni. Infatti, pure una generica solidarietà superficialmente sentimentale è difficile da manifestare ai detenuti. In quanto la convinzione generale è che, se costoro non avessero fatto qualcosa di male, non si troverebbero attualmente a malpartito. A questo ragionamento, non sbagliato astrattamente ma connesso del tutto indebitamente con l’inaccettabile degradazione della dignità dei reclusi, noi opponiamo tre osservazioni.

Carceri e disagio sociale

La prima considerazione consiste nella formulazione di un serio dubbio sull’adeguatezza, nel terzo millennio della nostra era, della reclusione come sanzione penale di base. Oggi, la cultura e la sensibilità sociale diffuse dovrebbero suggerire che la detenzione sia realmente l’extrema ratio delle sanzioni penali, a cui fare ricorso nei soli casi di pericolosità dei rei per la sopravvivenza e l’incolumità fisica delle altre persone. Fuori di questi casi, prevedere la reclusione è un comodo espediente per solleticare un consenso disinformato; e per scaricare sul carcere una parte del disagio sociale, indipendentemente dall’effettiva pericolosità connessa.

Chi finisce in carcere?

La seconda osservazione segue il ragionamento precedente. Siccome i discorsi all’insegna del “Buttiamo via la chiave” sono sempre stati fatti, s’imporrà pure un bilancio dei risultati ottenuti facendoli. Qui non intendiamo avventurarci sul difficile terreno (comunque da affrontare) dello studio delle recidive dei soggetti entrati e usciti dal circuito penitenziale. Ma più semplicemente domandarci: siccome tanto spesso sentiamo di casi di soggetti chiaramente pericolosi per la vita degli altri e che l’hanno effettivamente minacciata o distrutta essendo a piede libero, chi finisce per davvero in carcere? È un interrogativo che interpella non solo la Magistratura e la sua attività d’interpretazione dei dati normativi, ma anche i detentori del potere Legislativo. Spesso, infatti, si ha l’impressione che finiscano per essere preservati dalla privazione della libertà proprio alcuni tra i soggetti più pericolosi per la sicurezza individuale.

L’articolo 13

Infine, la terza considerazione richiama quanto si è già detto. Non è lecito ignorare le conseguenze degradanti di un sistema penitenziario malfunzionante; né impostando il problema in termini meramente economico-funzionali, né provando a giustificare la situazione riferendosi alle colpe penali dei reclusi. Dalle condizioni delle carceri si desume la civiltà di un Paese. Ce lo ricorda non solo Voltaire, ma anche la nostra Carta costituzionale, laddove (articolo 13, 4° comma) prescrive espressamente la punizione di ogni violenza fisica e morale inflitta a persone comunque sottoposte a restrizioni della libertà.

Realtà o utopia?

Siccome, però, neanche la Costituzione è stata scritta dal “dito di Dio”, ci permettiamo di farci un’ultima domanda, che non vuole essere una provocazione, ma un semplice spunto di riflessione. Quando, all’articolo 27, 3° comma, la Carta afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, sta dettando una disposizione programmatica, ovvero utopistica?

Il dubbio viene. Anche perché l’ultimo comma citato inizia escludendo che le pene possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. È umano privare un essere umano della libertà? La circostanza per cui, in qualche caso, proprio i soggetti che non riescono a farne un uso tollerabile se la vedano comunque riconosciuta, ci sembra una spia del fatto che la reclusione sia effettivamente un fatto umano, ma nel senso deteriore, cioè ingiusto.  

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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