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Carlo Nordio: dal nuovo ministro della Giustizia nomine da vecchia politica

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Carlo Nordio: appena insediato in via Arenula, il nuovo ministro della Giustizia del governo Meloni ha fatto delle scelte vecchie, purtroppo. Se, dunque, il buongiorno si dovesse vedere dal mattino, vorrebbe dire che la notte, per la politica della giustizia nazionale, è ancora fonda.

Preveniamo subito un’obiezione. Non stiamo facendo alcun processo alle intenzioni. Ovviamente, il Guardasigilli non ha ancora potuto incidere negli ambiti costituzionalmente suoi propri, che sono l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (articolo 110 della Costituzione). Noi qui mettiamo sotto la lente ciò che Nordio ha già fatto, vale a dire le prime nomine dei suoi più stretti collaboratori al dicastero. Coerentemente, ci siamo riferiti alla politica della giustizia, cioè le grandi linee della conduzione di questo fondamentale settore dell’amministrazione. Cominciamo, comunque, dalla biografia del nuovo ministro.

Serietà, competenza e scrupolo 

Carlo Nordio, fresco deputato, è un magistrato a riposo. Nato a Treviso nel 1947, laureato in giurisprudenza a Padova nel 1970, è entrato in magistratura nel 1977 e vi ha prestato servizio sino al pensionamento, nel 2017. 40 anni di professione senza particolari progressioni di carriera, la gran parte svolta nell’ambito della procura della Repubblica di Venezia. Molti anni spesi da semplice sostituto; poi, nel 2009, la nomina a procuratore aggiunto, sempre del capoluogo veneto. Infine, nell’anno che lo conduceva alla quiescenza, è stato procuratore facente funzioni. A quanto pare, si è sempre mostrato volutamente indifferente, se non ostile alla promozione ad incarichi direttivi, preferendo continuare a condurre personalmente le inchieste e i processi. Non aveva fama di stakanovista, ma anche in questo caso se ne menava vanto, dichiarando che le responsabilità del magistrato sono talmente gravi, da richiedergli opportuni momenti di stacco. 

Nella prima metà degli anni Duemila, ha presieduto una delle tante commissioni per la riforma del codice penale. Alla notorietà, comunque, Nordio era approdato già prima. Negli anni di Mani Pulite, anche a uso e consumo mediatico, era assurto a contraltare dei colleghi della procura di Milano, avendo indagato i vertici nazionali dell’ex Pci, nell’ambito dell’inchiesta sulle Coop rosse. Senza dimenticare indagini e dibattimenti riguardanti il terrorismo, i sequestri di persona, nonché reati tributari e dei colletti bianchi (per tutti, l’inchiesta Mose).

Prime frizioni?

Il ministro della Giustizia gode di una fama adamantina di garantista, al punto che taluni già ipotizzano un disallineamento rispetto al tradizionale rigore della destra di ascendenza missina. In effetti, Nordio si è sempre professato di idee liberali. Di certo, le sue prime dichiarazioni dopo il giuramento al Quirinale, nel senso della necessità di un’estesa opera legislativa di depenalizzazione, mal si conciliano con quelle di tenore opposto del presidente del Consiglio Meloni, rese nel corso del dibattito sulla fiducia al nuovo governo. Discorso analogo può farsi per la diversa opinione, espressa dalle due personalità, circa il mantenimento dell’istituto dell’ergastolo ostativo, con Meloni favorevole e Nordio, invece, decisamente contrario.

Guardasigilli e ministero, un po’ di storia

Spendiamo brevemente qualche parola sul titolo di Guardasigilli, altro nome del ministro della Giustizia. Storicamente, al tempo delle monarchie, la funzione corrispondente veniva esercitata dal Cancelliere e dall’omonimo ufficio. Si trattava di conservare e, quindi, apporre il sigillo ufficiale dello Stato su tutti gli atti più importanti, a partire da quelli normativi. Oggi, il visto del Guardasigilli in calce a leggi e decreti, promulgati dal capo dello Stato, segna il passaggio alla pubblicazione degli stessi in gazzetta ufficiale, in vista della loro entrata in vigore. La denominazione di Guardasigilli ci deriva, attraverso la tradizione sabauda e napoleonica, dall’esperienza giuridica francese (Garde des Sceaux).

Nel 1932, il governo fascista sottrasse gli affari di culto al dicastero della Giustizia, per assegnarli a quello dell’Interno. Dal 1990, il ministro della Giustizia italiano è competente anche per la polizia penitenziaria. Fino al 1999, il titolo del ministero era Grazia e Giustizia, con riferimento alla competenza (dopo la sentenza n. 200/2006 della Consulta, meramente istruttoria) in ordine alle istanze di clemenza, rivolte al presidente della Repubblica. Il ministro della Giustizia è l’unico, per così dire, costituzionalmente necessario, in quanto è il solo espressamente menzionato nella Carta. Oltre al citato articolo 110, il 107 gli attribuisce la facoltà di promozione dell’azione disciplinare a carico dei magistrati.

 Scelte discutibili

Veniamo allora alle nomine di Nordio. Il nuovo capo di gabinetto del ministero è il dottor Alberto Rizzo, mentre il vice di quest’ultimo è la dottoressa Giusi Bartolozzi. Chi sono, costoro? Certamente, due autorevoli ed esperti tecnici del diritto. Si dà il caso, però (se possiamo osare un eufemismo), che siano anche due magistrati. Il primo è il presidente del tribunale di Vicenza, la seconda è stata giudice a Gela e Palermo, quindi presso la Corte d’appello di Roma e ha svolto anche funzioni in una commissione tributaria provinciale. Non solo. Bartolozzi, nella scorsa legislatura, è stata deputato di Forza Italia, prima di passare al Gruppo misto, in dissenso rispetto a un emendamento del suo partito, da lei considerato ispirato da interessi personali. Un dispetto a Berlusconi, questa nomina? Non è questo il punto, comunque.

Circolo vizioso

Il punto è che nominare continuamente magistrati presso le altre amministrazioni dello Stato, cioè farli collocare fuori ruolo dal Consiglio superiore della magistratura, significa alimentare pervicacemente il circolo vizioso “uso politico della giustizia-uso giudiziario della politica”. Un caso come quello di Bartolozzi, poi, esemplifica lo schema delle “porte girevoli”, a parole trasversalmente criticato ma, nei fatti, da nessuno mai abiurato. C’è un problema di forma e c’è un problema di sostanza. Cominciando dal secondo, l’organico della magistratura – sempre al limite del sottodimensionamento, per pretesa corporativa degli stessi appartenenti, costantemente soddisfatta dalla politica – viene in tal modo inutilmente sguarnito.

Quanto al più grave problema di forma, il magistrato è già uno specialissimo funzionario pubblico, cui è deferito il delicatissimo potere della giurisdizione. Il fatto che, in regime di aspettativa, vada a ricoprire funzioni amministrative alle dirette dipendenze dell’autorità politica, complica un rapporto di per sé già difficile, per sua natura dispari e sempre a rischio di pericolosi cortocircuiti. E poi, dopo tutto, avevamo forse bisogno di un governo di destra, dopo molti esecutivi largamente influenzati dalla sinistra, per confermare l’auto-tutela della magistratura contro riforme di sistema, che dovrebbero necessariamente riguardare anch’essa?

Discontinuità tradita?

Probabilmente, attendersi una presa di distanza dal costume politico del distacco di magistrati presso gli uffici di alta amministrazione proprio da un loro ex collega, è troppo. Allora, forse, non è stata una scelta coerente, per un governo con dichiarate ambizioni di discontinuità, far nominare ministro della Giustizia un reduce dall’appartenenza all’autorità giudiziaria. Ripetiamo: nessun processo alle intenzioni, solo valutazioni difformi di opportunità. L’inizio non ci sembra incoraggiante, attendiamo il seguito.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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