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Il centrodestra e il disastro sul Quirinale: tutto il male vien per nuocere?

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Centrodestra: a detta di tutti, è la coalizione fra Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia la grande sconfitta della partita del Quirinale. Il discorso, realisticamente, è più complesso. Nel senso, quanto meno, che il mondo dell’informazione si conferma smaccatamente sbilanciato nell’analisi della situazione politica. Benché stampa e tv non sottolineino la circostanza, il modo con cui anche il Pd ha gestito la rielezione di Mattarella è stato tutt’altro che positivo. Né sarebbe mancata, a parti invertite, un’opportuna sottolineatura dell’influenza anomala che Matteo Renzi esercita ancora fra gli eletti del suo ex partito, col quale è apparentemente in costante polemica.

Ad ogni modo, qui non siamo certo a fare i bastian contrari, né la parte di quanti negano l’evidenza. La coalizione data (forse, anche qui con non ben augurante anticipo) come vincitrice delle prossime elezioni politiche non ha superato nessun esame degli ultimi cui è stata sottoposta. Basti pensare, prima di oggi, alla pessima prova fornita nell’ultima tornata amministrativa, quando Salvini e Meloni hanno presentato, nelle due principali città italiane, Roma e Milano, candidati sindaco sonoramente bocciati dagli elettori. Forse, però, anche nel caso del centrodestra, tutto il male potrebbe non venire per nuocere.

L’unico candidato di Berlusconi

Cominciamo dall’elezione al Colle e da Forza Italia. A rielezione del capo dello Stato uscente avvenuta, possiamo confermare un’impressione che avevamo avuto anzitempo: cioè, che la candidatura di Silvio Berlusconi significasse altro rispetto all’apparenza. Il Cavaliere sapeva perfettamente che la propria elezione, alle condizioni costituzionali e politiche previste, non era possibile. Aver messo sul tavolo con largo anticipo la candidatura ed avercela tenuta a lungo ha voluto dire ridurre drasticamente, per non dire impedire del tutto, i margini di manovra dello schieramento di centrodestra. A meno, naturalmente, di non fare deflagrare in anticipo quest’ultimo, ove gli altri partiti avessero esplicitamente escluso di poterla sostenere. 

Se a questo aggiungiamo che Berlusconi, come tutti gli altri soci della maggioranza di governo, riteneva assolutamente sconveniente che Mario Draghi lasciasse palazzo Chigi per la presidenza della Repubblica, ne deriva che Sergio Mattarella era sin dall’inizio il candidato del Cavaliere. I motivi di questa preferenza, ovviamente, li conosce lo stesso Berlusconi, né ci interessa esercitarci in ipotesi al riguardo. Una cosa, comunque, è certa: il centrodestra come lo conosciamo non ha mai creduto a quanto sosteneva pubblicamente, cioè di puntare ad un’indicazione presidenziale nell’ambito del proprio orizzonte e di lavorare in quella direzione.

Meloni, testimoniare non basta

Veniamo a Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia. Anche qui bisogna deporre qualche pudore. La coerenza di questa forza politica è sicuramente meritevole, ma il plauso va ridimensionato alla luce della considerazione della mancanza di alternative. FdI non può allearsi che con la Lega e Forza Italia. Quindi, le parole d’ordine sulla contrarietà agli “inciuci” e sulla refrattarietà alle “poltrone” (stile a parte) lasciano il tempo che trovano. Meloni vorrebbe un’altra Costituzione, un’altra politica interna, un’altra idea di Europa. Legittimo e, per chi condivide, anche opportuno, per non dire necessario. Bisogna arrivarci, però o almeno avvicinarcisi. Come? 

Qui bisogna varcare il confine che separa la propaganda dalla politica. E bisogna anche avere il coraggio di mettere in discussione la prosecuzione del proprio impegno politico attivo. Un leader, per dimostrare di fare politica in vista degli scopi sulla base dei quali ha riscosso consenso, non ha che due strade. O riesce a centrare gli obiettivi (a farli almeno avanzare), ovvero deve lasciare. Diversamente, anche al di là delle intenzioni, il suo sarà un esempio di politica ripiegata su se stessa. La testimonianza alle idee può portarla un intellettuale o un militante, ma un dirigente politico deve rispondere dei risultati politici e non solo di quelli elettorali. Per ora, con Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia è cresciuta nelle intenzioni di voto ed elettoralmente in qualche realtà locale. Sugli altri fronti, non è ancora pervenuta. Nella partita del Colle, Meloni avrebbe dovuto porre più decisamente il tema della non credibilità della candidatura di Berlusconi. Invece, si è trincerata dietro lo scudo della fedeltà esibita in occasione del disastroso voto su Casellati. E poi ha ripiegato su classici candidati di bandiera (Crosetto e Nordio).

Salvini, tra dilettantismo e…

Buoni ultimi, ecco Matteo Salvini e la Lega. Della magra figura fatta, hanno già detto tutti. Aggiungiamo solo, per far sorridere, che le proposte di nomi da parte del Capitano, subito respinte dagli avversari, ricordavano lo sketch del buon Totò, preso a pugni da un tizio che credeva di menare un certo Pasquale: il principe non reagiva, perché sapeva di non essere Pasquale. Salvini ha detto: io ho fatto proposte, gli altri le hanno bocciate tutte, alla fine per senso di responsabilità ho convenuto di lasciare tutto com’era. Ma come spiegare il clamoroso passo falso sul presidente del Senato, mandato allo sbaraglio al quarto scrutinio? Serviva a dimostrare che sarebbero mancati proprio i voti del partito di Casellati? I panni sporchi, però, si lavano in famiglia. A condizione, beninteso, che la famiglia stia in piedi: in questo caso, l’alleanza.

Su Salvini, notiamo due cose. La prima è che la politica che c’è, quella di palazzo, non è il suo mestiere. O si propone di cambiarla e ci riesce, ovvero impara a farla; oppure (come si diceva per Meloni), deve mettere in discussione il proprio impegno. La seconda nota è che la prova fornita da federatore del centrodestra è stata pietosa, lungo tutta la legislatura. Nei fatti, l’alleanza non si è addirittura mai vista e la prima a bruciarla è stata proprio la Lega, col governo Conte I.

Maggioritario e centrodestra

Eccoci alla conclusione, con cui estinguiamo il debito del male che potrebbe non venire tutto per nuocere. La reazione alla farsa presidenziale, con la conferma della sola persona su 60 milioni in grado di fare il presidente, può servire a dire se esista ancora il centrodestra. E, insieme con esso, almeno la teorica possibilità di un regime democratico dell’alternanza in Italia.

Il Pd è il partito di sistema, quindi di governo per definizione. I centristi di ogni sigla va da sé cos’abbiano in mente: sono quelli dei 70 voti nel centrodestra mancanti a Casellati e dei 738 dati a Mattarella. Il Corriere della Sera, per esempio, si è già schierato per il proporzionale alle prossime elezioni politiche. Se il centrodestra c’è, batta un colpo a favore del maggioritario. Deve cambiare ritmo, però, perché i rintocchi della scorsa settimana suonavano decisamente a morto.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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