La Corea del Nord di Kim Jong-un fin dove potrà spingersi con le sue provocazioni? È un pericolo autentico o una tigre di carta, per ricorrere all’espressione di Mao? Di certo, la tensione nel Pacifico non fa che salire. A maggior ragione dopo l’annuncio nordcoreano di aver testato la bomba all’idrogeno. E quando un uomo celebre per la sua freddezza, come Vladimir Putin, paventa il rischio di una guerra su vasta scala, c’è di che preoccuparsi. Anche perché non è del tutto chiaro di quali armamenti disponga l’arsenale di Pyongyang.
Oltre alle ultime condanne di rito, si palesano intanto i primi segni del contagio fuori dall’Estremo Oriente. Trump punisce l’Egitto, tagliandogli una parte (per ora minima) dei fondi di sostegno americani. Formalmente, perché non rispetta i diritti umani. In realtà, perché non recide i legami con la Corea del Nord, eludendo parzialmente le sanzioni. Ma il vero punto di forza del regime di Kim è comunque la sponda della Cina.
Le frecce all’arco di Kim
Cominciamo allora dalle armi nordcoreane, trascurando di parlare di quelle convenzionali, di cui Pyongyang è munita ai massimi livelli. Il punto chiave è sapere se Kim sia in grado di montare una potente testata nucleare su un vettore capace di raggiungere gli Stati Uniti. Che disponga sia degli ordigni, sia di missili di gittata sufficiente (come gli Hwasong), ormai non è più in discussione. E questo sesto test, dopo i 5 svolti dal 2006 a oggi, a detta degli analisti sarebbe quello decisivo per determinare la potenza di fuoco nordcoreana. Se ne verrà confermato l’esito positivo, allora le relazioni con gli Usa potranno solo peggiorare. Soprattutto perché la deadline recentemente fissata da Trump, prima di una reazione di forza statunitense (“fire and fury”), è stato proprio questo sesto test.
Sottomarini e armi chimiche
Il regime nordcoreano però ha altre due frecce al suo arco da tenere ben presenti. I sottomarini, anzitutto: ne dispone di una settantina. Se Pyongyang riuscisse ad armare con le atomiche i missili Pukguksong imbarcati sui sommergibili, la capacità d’intercettazione di chi si difende potrebbe ridursi fino ad annullarsi. Poi ci sono le armi chimiche e batteriologiche. Fonti dei servizi segreti statunitensi stimano in 5.000 tonnellate l’armamentario tossico del dittatore. Anche l’eventualità dell’impiego del Sarin, il potentissimo gas nervino classificato come arma di distruzione di massa, va presa in considerazione. E la Corea del Nord è sospettata pure di sferrare cyber attacchi, come quello subito dalla giapponese Sony nel 2014.
Le ragioni di Kim Jong-un
I motivi che ispirano l’escalation provocatoria di Kim Jong-un sembrano molto più spiegabili di quelle degli altri attori della vicenda. Il regime ha anzitutto il problema di perpetuare se stesso. Minacciando di essere disposto a tutto, Kim vuole imporre l’idea che non si possa prescindere da lui. E in effetti, pubblicamente, l’amministrazione americana ha sempre escluso di perseguire il “regime change”. L’altro problema di Pyongyang, per quanto brutali possano sembrarne i termini, è la sopravvivenza della stessa Corea del Nord come nazione.
Corea e Giappone, nemici da sempre
Inutile nasconderselo: la divisione della penisola nelle due Coree è una scoria della Guerra Fredda. Il Paese unito fu lungamente conteso fra Cina e Giappone. L’impero del Sol Levante lo fece suo nel 1910 e lo mantenne sino alla resa incondizionata agli Stati Uniti nel 1945. Ma i coreani, prima della divisione imposta dagli equilibri mondiali, si sono dimostrati indomiti nel resistere al colonialismo nipponico. Ecco perché la divisione in due Stati appare tanto innaturale. E oggi la separazione della penisola coreana invece può fungere da detonatore, che fa deflagrare tutti i nazionalismi dell’Estremo Oriente. La violazione dello spazio aereo giapponese, compiuta con l’ultimo lancio missilistico nordcoreano, e il possesso di armi chimiche da parte di Kim giustificano un’accelerazione nel riarmo. E a Tokyo, il premier Shinzo Abe si comporta di conseguenza.
La Cina e gli Stati Uniti alle porte
Come accennavamo, molto dipenderà dall’atteggiamento della Cina. Pechino ha reso Pyongyang quello che è oggi. Probabilmente, se potesse ancora scegliere, Xi Jinping opterebbe per un Nord denuclearizzato. Impossibile invece che accetti pacificamente di avere al confine un alleato americano. Ragion per cui la peggiore delle ipotesi – che Kim aggredisca Seul e che Trump annichilisca il Nord – non dovrebbe essere contemplata dai Cinesi. Resta poi l’ipotesi di un lancio missilistico nordcoreano contro gli Usa. Ma a parte la riuscita dell’operazione, tra la provocazione e il suicidio corre parecchia strada.
La sindrome di Pearl Harbor
Non dimentichiamo comunque che il “casus belli” potrebbe essere molto più vicino, fisicamente parlando. L’isola di Guam, la più grande dell’arcipelago delle Marianne, ospita una base americana con 13.000 soldati. E dista solo 3.300 km da Pyongyang. Già da tempo è nel mirino di Kim, che la vede come una nuova e più temibile Pearl Harbor.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.