Don Roberto Malgesini: un martire del nostro tempo? Potremmo dire, forse, un uomo per tutte le stagioni, vale a dire una persona di cui tutti i tempi avrebbero bisogno. Come si diceva, in tutt’altro contesto, di Tommaso Moro, il lord cancelliere di Enrico VIII canonizzato e fatto patrono dei politici cattolici. Solo che quest’ultimo si è meritato il serto della santità trattando affari di Stato. Il prete comasco, invece, è stato ucciso mentre serviva i poveri e gli emarginati, così com’era sempre vissuto.
Certo, non sembra esservi testimone migliore di Cristo e della Chiesa ai tempi di Papa Francesco. Infatti, il Pontefice lo ha ricordato con accenti accorati alla prima udienza generale successiva al suo assassinio avvenuto lo scorso 15 settembre. E ha inviato a celebrare una Messa in suffragio e consolare i suoi genitori il cardinale Konrad Krajewski, suo Elemosiniere. Un prete e un vescovo, questo porporato polacco, che conduce (compatibilmente col suo ufficio) una vita non troppo dissimile da quella di don Roberto. A differenza di quest’ultimo, però, non è estraneo a gesti clamorosi e controversi. Come quando l’anno scorso si autodenunciò per aver riallacciato le utenze, tagliate causa morosità, di un palazzo occupato abusivamente a Roma da centinaia di senzatetto.
Le polemiche sulle parole del Papa
Non sono mancate, comunque, le polemiche. Perché don Malgesini è stato ucciso da un immigrato tunisino irregolarmente presente nel nostro Paese. Già colpito da provvedimento di espulsione non eseguito benché datato 2015, il 53enne Ridha Mahmoudi conosceva don Roberto. E, stando alle dichiarazioni da lui stesso rilasciate agli inquirenti dopo il brutale omicidio (ma poi ritrattate), riteneva di essere stato tradito dal prete. Così come sospettava di malanimo nei suoi riguardi gli avvocati che lo avevano assistito, i fratelli Carlo e Vittorio Rusconi. Non avrebbero fatto abbastanza per lui e per questo aveva meditato di ucciderli. Ma, siccome non si sono visti in tribunale a Como quando lui li aspettava per tendere loro agguato, ha ripiegato sul sacerdote. Insomma: un quadro indiziario non compatibile con l’infermità mentale e che, anzi, suggerisce la premeditazione.
Ed ecco che, allora, scatta la polemica nei confronti del Papa. Che, commemorando il sacerdote accoltellato a morte, ha parlato dell’omicida come di un “malato di testa”. Probabilmente, il Pontefice intendeva dire che solo uno squilibrato poteva voler uccidere chi, come don Malgesini, si prendeva cura anche di lui. Difficile, se non per amor di polemica, volerci leggere una lancia spezzata in favore della futura difesa processuale dell’assassino.
Tuttavia, al di là delle polemiche, non è di maniera ricordare la differenza di prospettiva fra Stato e Chiesa. Il primo si occupa, come riesce, di far rispettare i diritti e le regole. La seconda vede e si sforza di scorgere in ogni uomo quel Gesù che crede come Signore. Se lo Stato fatica a fare la sua parte e non riesce ad espellere nemmeno i clandestini che ha identificato come tali, non si può farne rimprovero alla Chiesa. Né chiederle di rinnegare l’esigente comandamento della carità, scolpito nelle parole: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Mt 5, 44).
Don Roberto, buon samaritano mai indifferente
E veniamo a ciò che più conta, cioè la testimonianza offerta da don Roberto Malgesini. Con una brevissima premessa, che potrebbe sembrare stonata, ma è forse utile a prevenire un’ulteriore obiezione. Il prete di Como non è stato ucciso, propriamente, in spregio alla fede. È pur vero, però, che l’odio in opposizione alla testimonianza cristiana assume le forme che storicamente sono possibili. Oggi non è più il caso della contrapposizione fra religione civile dell’Impero e fede trascendente confinata nelle catacombe, come al tempo dei protomartiri. Al presente, più che la persecuzione è il caso, in Occidente, dell’indifferenza verso la fede e verso quanti versano (per le più diverse ragioni) in difficoltà.
Don Roberto era proprio il contrario dell’indifferente. Era uno che si sentiva partecipe e, in certo modo, responsabile della vita degli altri. È questo lo specifico della sua testimonianza. Così lo ricorda il diacono Roberto Bernasconi, direttore della Caritas diocesana lariana. “La sua idea di carità era molto semplice. A lui non importava dei documenti: nel prendersi a cuore ed ospitare non chiedeva permessi”.
Il lievito dell’altruismo
Si capisce che questa libertà esteriore era riflesso di una più grande libertà interiore. Bernasconi non tace un’altra verità ostica, per una mentalità impregnata di luoghi comuni e di politicamente corretto. “Essere prete in questo modo non è sempre ben capito ed accettato, anche tra confratelli e fedeli nella stessa Chiesa”. Non c’è da scandalizzarsi per questo. Perché non necessariamente talune perplessità circa questo modo di vivere il ministero sacerdotale si appuntano sul radicale altruismo alla base di tale scelta. È chiaro a chiunque ragioni e non dia semplicemente fiato alla bocca che una Chiesa fatta solo da preti come don Malgesini finirebbe snaturata nella sua dimensione istituzionale. Ma è anche vero che una testimonianza radicalmente coerente e tanto ardente di carità cristiana come la sua è un lievito indispensabile, per alimentare costantemente l’annuncio evangelico.
Discrezione e carità fattiva
È sempre Bernasconi a sottolineare altre due caratteristiche eminenti della pastorale di don Roberto. L’una strettamente personale, l’altra dagli importanti risvolti sociali. La prima era la sua discrezione estrema: poche foto, video, nessuna intervista, né tracce social. Era troppo preso dalle persone cui dava aiuto concreto: pasti, assistenza per ragioni di salute, visite in carcere. L’altra caratteristica era la fattiva sussidiarietà dell’opera prestata da don Malgesini. Le istituzioni locali, nonostante alcune incomprensioni, ben conoscevano ed apprezzavano la sua capacità di seguire casi personali, dei quali nessun ente organizzato è ordinariamente in grado di occuparsi.
Al termine dell’omelia pronunciata nella Messa in suffragio di don Roberto, il cardinale Krajewski ha voluto idealmente consegnare ai preti e a tutti la preghiera del cardinale Newman, che santa Teresa di Calcutta faceva recitare alle sue suore. Il suo senso è: il cristiano autentico non funge che da icona di Cristo. Dal suo esempio di vita deve promanare la luce del Signore, al quale chi ne viene illuminato ritorna con tutto il cuore. Questa testimonianza non muore e attesta che vivere diversamente, per quanto difficile ed esigente sacrificio, è possibile in tutte le stagioni.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.