Donald Trump torna alla Casa Bianca: per il tycoon newyorchese di nascita e d’affari e floridiano d’adozione, lo scrutinio del 5 novembre costituisce un completo trionfo. Vincitore del voto popolare con un margine del 3%, pari a poco meno di 5 milioni di suffragi. Vincitore del decisivo Collegio elettorale che provvede all’elezione vera e propria del presidente degli Stati Uniti, con quasi 300 grandi elettori contro meno di 230 della rivale. Vincitore in tutti gli Swing States che, proprio in quanto tradizionalmente in bilico (cioè dal voto non fidelizzato), decidono le sorti dell’elezione: Pennsylvania, Georgia, North Carolina, Michigan, Arizona, Wisconsin e Nevada.
Oltre che Kamala Harris, avversaria democratica e vicepresidente uscente di Joe Biden, il candidato repubblicano ha sconfitto in misura eclatante un nemico più ostinato ed implacabile: il politicamente corretto. Ovviamente, bisogna intendersi. Siccome l’altro nome di quest’atteggiamento può tranquillamente essere identificato con l’ipocrisia, nessuno – tantomeno un candidato come Trump, reduce da una campagna elettorale vittoriosa – può dirsene pienamente esente. Infatti, domandando il voto, si affermano cose e si fanno promesse più o meno improbabili. Il politicamente corretto, però, è molto di più.
Anti-egualitarismo militante
Anzitutto, gli alfieri di questa mentalità sono animati da un fortissimo disprezzo per l’altro da sé, congiunto alla sua accorata non meno che malriuscita dissimulazione. Si tratti di idee, condotte o persone, per loro esistono il «noi» e il «voi». Declinate la prima persona plurale al singolare, fatevi venire in mente la celebre battuta di Alberto Sordi ne “Il marchese del Grillo” e il gioco è fatto. Loro non hanno semplicemente più ragioni o quelle migliori, loro sono la ragione.
Di conseguenza, gli altri non esprimono delle idee sbagliate bensì delle non-idee e, quando questo avviene, i portabandiera del politicamente corretto non si limitano a motivare il loro dissenso ma trasaliscono, s’indignano, inorridiscono. Insomma, si offendono perché per loro non è questione di confronto ma di oltraggio, sfregio, per non dire profanazione.
Il peccato di astrattezza e…
Generalmente, poi, i campioni e anche i semplici portatori d’acqua del politicamente corretto peccano d’astrattezza. La ragione di questo difetto è facile da intuire. La preferenza che essi accordano al mondo come dovrebbe essere rende loro indigesto il mondo così com’è. Fiat iustitia, pereat mundus è un buon esempio di questo tipo di mentalità. Nel caso della seconda candidatura di Trump, sarebbe stato bello escluderne la legittimità prima di andare ad una volgare conta dei voti. Sarebbe bastato trascurare un paio di cose.
Primo: che Trump era già stato presidente dal 2017 al 2020 e che, non essendogli stata preclusa allora la possibilità di candidarsi, sarebbe stato oltremodo difficile impedirgli di rifarlo. Secondo: che, essendo già Trump un riferimento per milioni di americani, pensare che una o più pronunce giurisdizionali togliessero le castagne dal fuoco alla mezza America e al mezzo mondo a cui non piace era un’illusione affatto pia. La giustizia è politica perché è umana e la sua amministrazione, piaccia o meno, consiste nel contenere ciò che non va e non stabilire come debbano andare le cose. Per quello, ammesso che ne sia capace, c’è la politica.
Un bagno di realismo
Possiamo rapidamente passare in rassegna il merito di alcune questioni sulle quali il politicamente corretto ha perso la sua battaglia contro il tycoon statunitense. L’immigrazione: nessuno ferma l’aria con le mani, ma il bersaglio di un’azione ostile non è tenuto ad aggiustare il mirino dello sparatore, bensì vanificarne i tiri. La solidarietà verso le persone è un rilevante valore individuale, ma gli Stati non possono mettersi al servizio di altri che non siano i cittadini, salvo che in limitate e temporanee circostanze.
La guerra in Ucraina: stanti le condizioni (dimensioni, risorse, armamento) e la vocazione (imperiale) della Russia, insidiarne le zone d’influenza non era saggio, per quello che chiamiamo Occidente. E ammesso che fosse vero che gli ucraini volessero collocarsi di loro iniziativa nell’orbita atlantica, questa volontà non era da assecondare. Ora che la Russia ha applicato la legge del più forte (come aveva già fatto in Siria in danno dello Stato Islamico e come avevano fatto gli stessi Usa in Iraq) e invaso un altro Paese, bisogna limitare i danni e questo non può non volere dire fermare le armi. Prima è e meglio è. Il logoramento strategico di un avversario geopolitico non si può fare a lungo per interposti Paesi, specie se questi ultimi devono essere distrutti in lungo e in largo.
La guerra in Medio Oriente: qui bisogna distinguere. Gli Usa con qualsiasi Amministrazione non puntano su Israele, ma ne sono avvinti nell’anima. Di conseguenza, i palestinesi o concretizzano un rapporto analogo con un’altra potenza mondiale equivalente (esiste? E anche accontentandosi di qualcosa meno, un’altra potenza vorrebbe replicare una simile relazione viscerale? I palestinesi, per parte loro, saprebbero renderla possibile?), o depongono definitivamente le aspirazioni nazionali. Quanto al resto della regione mediorientale, il contenimento (economico e non militare, s’intende) delle ambizioni nucleari dell’Iran è un obiettivo su cui è difficile non riscontrare convergenze arabe, oltreché occidentali.
La politica estera degli Usa in generale: atlantismo vuole dire vassallaggio e la Cina resta un avversario strategico. La forma di Unione europea che c’è va bene agli Usa perché non insidia la loro egemonia e Trump, infatti, chiede più contributi alla Nato e non alle difese europee nazionali o continentali. Essendo il Dragone un avversario economico e commerciale, la gelosia del know-how e i dazi sono ritenuti da Trump misure appropriate per rispondere ai cinesi sul terreno del confronto da loro scelto, almeno per ora.
Melania e la first family
Occorrerebbe altro spazio per parlare dell’economia sempre in cima ai pensieri dei cittadini di un Paese dinamico come gli Usa, del ritardo con cui il presidente uscente Biden si è fatto da parte, dell’eccessiva vistosità del carattere di ripiego per la candidatura democratica di Harris. E magari, sfidando anche noi il politicamente corretto, domandarsi se candidare una donna per un posto ancora correntemente chiamato e percepito come quello di «Commander in chief» non sia un azzardo inutile, specie se unilaterale.
Siccome tutto questo spazio non l’abbiamo, concludiamo dando il bentornato alla first lady Melania e al figlio Barron. Il mistero che la bellezza e la classe della donna non celano, né risolvono e la tripla fatica di crescita del figlio adolescente di un padre come il presidente Trump assolvono perfettamente il compito che gli americani assegnano alla famiglia presidenziale: fare restare umano un simbolo.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.
Grazie anche per questo articolo.
Non volevo credere che gli americani potessero eleggere ancora Trump ,ma tant’è. Attendo il prossimo articolo, grazie.