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Emilia-Romagna: perché questa Regione è sempre governata dalla sinistra?

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Regionali in Emilia-Romagna e Umbria: doppietta del centrosinistra. Mentre tutti o quasi i riflettori sono puntati sul ritorno di Perugia sulla “vecchia strada” con la neo-eletta presidente Stefania Proietti, è però la conferma senza storia di Bologna a solleticare la nostra attenzione. L’affermazione netta di Michele de Pascale, sinora sindaco di Ravenna, per la consiliatura che durerà sino al 2029 porterà la sinistra italiana a governare ininterrottamente questo territorio per più di 80 anni e, comunque, per quasi 60 da quando sono state effettivamente istituite le Regioni a statuto ordinario (1970). Come si spiega un simile risultato? E quali possono essere, nell’insieme, i riverberi politici nazionali di questa mini-tornata amministrativa? Proviamo a vederci più chiaro.

Bisogna dunque chiedersi per prima cosa come mai una responsabilità politica ed amministrativa democraticamente contendibile non sia mai cambiata di segno. Se non si dovesse partire da qui, sarebbe inutile mettersi per strada. In altri termini: esiste o meno, in Emilia-Romagna, una domanda di cambiamento? Dopo 60, o meglio ancora 80 anni di continuità, il dubbio deve venire, anzitutto a quanti pensano di poter rappresentare un’alternativa. Infatti, se non dovesse manifestarsi una significativa attesa di discontinuità, la presentazione delle liste elettorali si risolverebbe in una mera formalità, perché l’originale si fa sempre preferire alle copie.

La sinistra emiliana: tradizione e interessi

Naturalmente, non si può escludere che gli emiliano-romagnoli si trovino bene, cioè giudichino con eccezionale favore il modo con cui vengono amministrati da così tanto tempo. Del resto, il Partito comunista italiano ha sempre investito molto sulla formazione dei propri quadri dirigenti, di cui l’Emilia-Romagna è stata sia fucina, sia laboratorio di realizzazione. Basti evocare, per intenderci, nomi del passato come quelli di Giuseppe Dozza, Guido Fanti e Renato Zangheri, ovvero nomi ancora attuali come quello di Pierluigi Bersani. 

Non si può escludere nemmeno che il sistema politico ed economico-sociale di derivazione comunista, largamente fondato sul sistema delle cooperative e sul pan-pubblico, abbia messo radici tanto profonde nel territorio da rendere sconveniente su vasta scala troncarlo, proprio in ragione della capillarità della sua innervazione. Non si vede per quale motivo l’interesse debba ancora essere largamente riconosciuto come una buona garanzia di tenuta dei rapporti personali, mentre quando si parla di quelli politici la considerazione della circostanza risulti per la sinistra urticante. Sarà, per caso, a causa dell’ideologia della sedicente «diversità morale»? D’altronde, riesce difficile spiegarsi diversamente come proprio i Comuni più interessati dal flagello delle alluvioni (oltre a Bologna, Faenza, Bagnacavallo, Fontanelice, Sasso Marconi, Castenaso, San Lazzaro) abbiano confermato in misura eclatante il loro orientamento politico tradizionale. 

Il caso Piacenza

Delle 9 province della Regione, la sola Piacenza ha premiato la candidata del centrodestra Elena Ugolini e lo ha fatto con ampio margine (quasi 14mila voti e quasi 15 punti percentuali di scarto). La Primogenita si conferma politicamente di “tendenza lombarda”. E i piacentini meno giovani di tradizione cattolica forse ricordano quando, a cavallo della fine degli anni 70 e l’inizio degli anni 80, il vescovo monsignor Manfredini dava alle stampe, direttamente a suo nome, una pubblicazione di denuncia della pervasività del controllo comunista sulla società emiliana. Scelta già allora controcorrente, quella del presule milanese, che forse contribuì a farlo scegliere da Giovanni Paolo II proprio come arcivescovo di Bologna, dove però il suo episcopato si risolse in pochi mesi nel 1983, a causa di una repentina morte bianca. 

Il Pd cresce, ma…

Quanto alle conseguenze politiche nazionali del voto amministrativo della scorsa settimana, esse assumono rilievo soprattutto per quanto riguarda il centrosinistra. La coalizione di centrodestra, infatti, può guardare tutto sommato con moderata soddisfazione alla tornata appena conclusasi: la perdita dell’Umbria pareggia il mantenimento il mese scorso della Liguria, che si temeva perduta.

Come hanno notato alcuni commentatori sulla stampa nazionale, si assiste ad una specie di “ritorno della Quercia”, cioè una tangibile ripresa della centralità elettorale del Pd, che effettivamente è tornato ovunque il primo partito del campo progressista. Poiché la quercia (simbolo del Pds, primo succedaneo del Pci) richiama i cespugli, vale a dire il nanismo percentuale degli alleati, ciò pone due ordini di problemi. Da una parte, la suscettibilità di Giuseppe Conte che, impegnato ad affrancare il suo Movimento 5 Stelle dalla tutela del fondatore e garante Beppe Grillo, non ha mai elaborato il lutto dell’avvicendamento a palazzo Chigi con Mario Draghi. Dall’altra, la questione della “somma zero”: se i voti passano da un partito all’altro di quello che spesso è stato evocato come “campo largo”, è intuitivo come quest’ultimo sia in realtà più ristretto di quanto non si speri. 

Per stare, nondimeno, ai 5 Stelle, ridurre i problemi da loro rappresentati al narcisismo di “Giuseppi” sarebbe banale, ma soprattutto illusorio. Anche il dilemma “Renzi sì-Renzi no” è una metonimia, consiste cioè nello scambiare una parte per il tutto. Il Movimento è nato contro i partiti, gli accomodamenti e gli scambi: certo, poi li ha fatti e alla grande, ma un conto sono gli eletti e un altro gli elettori.

L’astensione è il problema 

Veniamo, così, a concludere con un riferimento obbligato all’astensione. L’affluenza è stata poco meno del 46,5% in Emilia-Romagna, poco sopra il 50% in Umbria (52,3 per la precisione), appena sotto il 46% in Liguria ad ottobre. 

Della disaffezione democratica abbiamo già parlato. Per stare alle ambizioni nazionali di revanscismo della sinistra, c’è il rischio che una politica delle alleanze sempre più spregiudicata nel suo volere tenere dentro tutti risulti respingente, anziché attraente. Il che potrebbe tradursi sia in una diserzione dalle urne dei suoi elettori, sia in un parziale prosciugamento del bacino dell’astensione proprio in danno del cosiddetto campo largo. Ad ogni modo, è rimarchevole il fatto che chi governa da 80 anni in Emilia-Romagna si accorga che 2 anni di governo nazionale di centrodestra o destracentro sono già troppi e paventi con sgomento che possano diventare 5, o addirittura 10. Vedremo se in tutto il Paese c’è una grande domanda di cambiamento, oppure se dovesse esserci come in Emilia-Romagna.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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