Enrico Berlinguer: a 40 anni dalla scomparsa del più amato segretario generale del Pci (11 giugno 1984), è giunto finalmente il tempo anche di una motivata analisi critica, oppure c’è spazio ancora solo per entusiastiche celebrazioni?
Ci siamo già riferiti a Berlinguer in altre due occasioni. Nel 2021 quando abbiamo ricordato il centenario della scissione al Congresso socialista di Livorno, che ha dato vita al Partito comunista d’Italia. E ancora nel febbraio scorso, commentando la visita della presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla mostra romana dedicata al leader comunista, risoltasi nell’apologia della politica come vocazione.
Nel frattempo, ci siamo accorti di un paio di cose. La prima è che l’interesse per il personaggio non è andato scemando nel corso dell’anno del tondo anniversario. Lo dimostrano il film di Andrea Segre con protagonista Elio Germano “Berlinguer – La grande ambizione”, uscito giovedì scorso nelle sale, e il dibattito alimentato da giornalisti d’opinione, come Maurizio Caprara sul Corriere della Sera il 31 ottobre.
La seconda ci riguarda direttamente: dopo avere ricordato Lenin e Togliatti nei rispettivi anniversari, quasi lasciavamo trascorrere l’intero 2024 senza parlare espressamente di Berlinguer. Solo leggerezza, oppure la spia del fatto che il personaggio è stato meno rilevante, specie dal punto di vista dei meriti, di quanto non sia sempre sembrato?
Tra umanità, sacrificio e consenso
Un errore che non si deve mai commettere, in questi casi, è la disonestà intellettuale di rileggere il passato con gli occhi del presente, che però a quell’altezza di tempo rappresentava il futuro. È vero che appartiene alle qualità dello statista intuire la traiettoria prevedibile dei fenomeni e degli avvenimenti, ma con l’ovvio limite per cui ciascuno è figlio del proprio tempo, cioè delle proprie esperienze.
Nel caso di Berlinguer, poi, non si possono trascurare tre fattori di notevole rilevanza nell’elaborazione dei giudizi. Da una parte, l’indubbia popolarità della sua figura dipendente da alcuni tratti della sua personalità: la serietà congiunta alla preparazione, la sobrietà, la riservatezza, il temperamento mite benché fermo, a tratti persino la dolcezza di certi particolari come il sorriso. Dall’altra, la brutale repentinità della scomparsa, drammatizzata e resa iconica da una sorta di immolazione sull’ara dell’ultimo comizio di Padova, concluso a fatica nonostante il male avesse già avuto ragione dell’uomo. Infine, l’influenza culturale (cioè di opinione e di costume) acquisita definitivamente dal Partito comunista proprio sotto la guida del politico sardo: se Gramsci aveva teorizzato l’egemonia e Togliatti ne aveva preservato la possibilità all’interno del perimetro legalitario e democratico, è stato Berlinguer a portarne a maturazione i frutti.
Linea politica più che discutibile
Chi fa politica (il professionista con la vocazione, alla maniera cara anche a Meloni) si giudica, però, essenzialmente sui risultati raggiunti. Qui cominciano le dolenti note. Rispondendo a Giovanni Minoli nella celebre intervista televisiva a Mixer, nel 1983, Berlinguer disse che ciò che gli piaceva del potere era la possibilità di realizzare gli ideali del suo partito, al punto che ciò che ne apprezzava di meno era l’insufficienza della quota ottenutane. Egemonia culturale a parte (che ha voluto dire la penetrazione nei due decisivi campi dell’informazione e dell’amministrazione della giustizia), si può dire che il Pci di Enrico Berlinguer non abbia conquistato altro.
La sua segreteria (12 anni, dal 1972 alla morte) è partita all’insegna del «compromesso storico», cioè l’ambizione della condivisione del governo del Paese con la Democrazia cristiana, in vista di una futura normalizzazione della dialettica politica nazionale nei termini dell’alternanza. Quindi, dopo la drammatica conclusione terroristica dell’esperienza della «solidarietà nazionale» con il rapimento e il delitto Moro (1978), Botteghe Oscure ha virato sull’«alternativa democratica», valeva a dire il vagheggiamento dell’unità a sinistra con il Partito socialista italiano, un miraggio dai tempi del Fronte popolare, poggiante allora su basi addirittura ancora staliniane. Infine, la divaricazione strategica dei due partiti e l’incomprensione personale con Bettino Craxi hanno fatto terminare la politica (e la vita) di Berlinguer con il Pci in una solitudine tutt’altro che splendida, preludio dello scioglimento e della frettolosa riconversione che arriveranno meno di un decennio dopo (1991).
Troppi nodi irrisolti
Ciò che, secondo noi, è meno confortante nel bilancio politico personale di Enrico Berlinguer è che gli insuccessi delle linee seguite dal suo partito erano da imputare alla stessa dirigenza comunista e quindi, prima di tutto, a lui stesso. Come avrebbe potuto scendere a compromessi, sia pure storici e invocare la solidarietà nazionale un partito che concepiva la storia (prima ancora della politica) nei termini della lotta di classe? Come si sarebbe potuto definire democratica un’alternativa consistente in un’alleanza guidata (per ragioni di peso elettorale e politico) da una formazione di dottrina marxista e leninista? E come avrebbero assecondato l’evoluzione della galassia progressista in senso socialdemocratico quanti consideravano anche solo il socialismo come un’esitazione, se non un aperto tradimento?
Persino la politica estera del Pci e il tenore dei rapporti con Mosca, ad onta di un’inesausta retorica celebrativa della discontinuità quando non anche della rottura, sono rimasti nodi irrisolti. Il finanziamento della casa-madre bolscevica non è mai venuto meno, così come la solidarietà comunista italiana nella questione geopolitica più spinosa del momento, i missili Pershing della Nato schierati in Sicilia in risposta agli Ss-20 sovietici puntati contro l’Europa occidentale.
Ideologia e realtà
Si potrebbero ricordare altre battaglie controverse (come il divorzio e l’aborto, perniciose per l’antico proletariato e in generale per i meno abbienti) o addirittura di retroguardia del Pci di Berlinguer, come il rifiuto del riconoscimento nel meccanismo della scala mobile dell’innesco di dannose spirali inflazionistiche.
La misura dell’arretratezza politica di Berlinguer – e del Paese nel suo insieme, è bene non dimenticarlo – si apprezza soprattutto ricordandone le posizioni sui temi istituzionali. In un mondo occidentale egemonizzato da tempo dagli Usa con il loro regime presidenziale, con una Francia che aveva già fatto da oltre un trentennio la scelta del semi-presidenzialismo onde archiviare l’instabilità cronica dell’Esecutivo, con una Gran Bretagna e una Germania in cui il parlamentarismo assumeva normalmente la veste del governo di partito, Berlinguer predicava senza esitazioni la concertazione (cioè il non-governo permanente) agitando lo spauracchio del fascismo. Un mese prima di morire, nella sua ultima tribuna elettorale, ribadiva di considerare scandaloso che il governo Craxi avesse decretato in materia economica e sociale (sul taglio della scala mobile) e che avesse osato farlo contro il parere della componente maggioritaria (e comunista, ovviamente) della Cgil.
Enrico Berlinguer, politicamente parlando, è rimasto saldamente ancorato all’ideologia, che è la preferenza accordata alle idee anziché alla realtà. Non pervenire mai al governo, lungi dal rappresentare un insuccesso, era dunque nella sua visione l’unica condizione per fare davvero politica. Il rimpianto per l’uomo non comprende necessariamente quello per la personalità politica e, forse, è questo il caso anche di Enrico Berlinguer.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.