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Femminicidio: ecco come fermare gli assassini

Femminicidio, un crimine che pare inarrestabile. Tra il 13 e il 14 luglio 4 donne sono state uccise in Italia. Da compagni, ex fidanzati, mariti. Le vittime di femminicidio nel 2016 sono state 120, quasi una ogni 3 giorni. E tutto questo è avvenuto nonostante nel 2013 l’Italia abbia introdotto la Legge 119. Il provvedimento inasprisce le pene se il reato è commesso “in presenza o in danno di un minore degli anni 18 ovvero in danno di persona in stato di gravidanza”. E “se il colpevole sia il coniuge anche separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza”. Ma ciò non sembra sufficiente per fermare questi crimini. E oltretutto la pena per l’omicidio volontario “base” non è lieve: va già da 21 anni all’ergastolo.

L’aumento della pena non è un deterrente

E allora perché questa nuova legge, che oltretutto non sta dando gli effetti sperati? Per l’erroneo principio che l’aumento delle pene funga da deterrente. Spesso è vero il contrario. Negli Stati Uniti si è dimostrato che quando la pena è più alta, i reati paradossalmente aumentano di numero ed efferatezza. Perché? È presto detto: se al rapinatore in banca è scappato il morto, sa molto probabilmente che lo aspetterà la sedia elettrica. E allora tanto vale compiere una strage di clienti e poliziotti perché, forse, riesce a fuggire. Quindi perché introdurre i reati di femminicidio, omicidio stradale o tortura, tutti fatti già ben previsti nel nostro ordinamento? Per lo stesso principio per cui l’onorevole Pd Emanuele Fiano vorrebbe introdurre una nuovo provvedimento contro episodi di fascismo. Atti già previsti e puniti da ben due leggi, la legge Scelba del 1952 e la più recente legge Mancino (1993). Per l‘opinione pubblica. Solo per questo motivo. 

Leggi da talk show

C’è l’originale gestore dei bagni di Chioggia che inneggia al Duce? Si fa una legge ad hocC’è il rom minorenne senza patente, drogato e ubriaco che investe una bambina mentre viaggia a folle velocità con l’auto di papà? Si fa una legge. Tanto, come direbbe l’indimenticabile Gilberto Govi, “non costa niente!” e così “la gente” è contenta. Oltretutto, un giudice che ha già a disposizione un’intera cartucciera per condannare l’imputato fino all’ergastolo, di un’ulteriore aggravante non se ne fa nulla. Anzi, gli crea più problemi che vantaggi, perché ha un’altra norma con cui fare i conti. Però i nostri onorevoli nei talk show possono dire, sfoderando un sorriso soddisfatto: “la legge sul femminicidio è una realtà”.

Quanto sconta un assassino

Il punto vero è un altro. E per capirlo bisogna per prima cosa “entrare nel processo“. L’istituto di ricerca Ires, in uno studio sugli omicidi in Italia, ha calcolato che la durata media della carcerazione per omicidio volontario è di 12,4 anni, contro una pena “edittale” che va da 21 anni all’ergastolo. Così poco? Com’è possibile? È presto detto. Quando un giudice è chiamato ad irrogare una pena, poniamo per omicidio, anzi, per femminicidio, deve tener conto di tutte le attenuanti e delle aggravanti del casoNon può giudicare con lo stesso metro. C’è chi si costituisce subito, si dimostra pentito, risarcisce il danno, collabora con le forze dell’ordine per ricostruire i fatti. E chi invece si è dato alla fuga, ha nascosto il cadavere, ha legato, seviziato, magari stuprato la vittima. In più magari ha negato l’evidenza. E ha già alle spalle una serie di violenze, stalking, risse e minacce. Ecco perché a parità di “fatto” femminicidio si possono riscontrare pene irrogate molto differenti tra loro. 

I limiti del sistema rieducativo

Poi bisogna ricordare che per la nostra Costituzione la pena – piaccia o meno – ha sempre scopo rieducativo. E non è mai intesa come vendetta della società. O come risarcimento per chi ha subito il crimine e per i suoi familiari. È per questo che il condannato viene seguito in carcere da un team di “educatori” che deve relazionare il giudice sul suo comportamento. È per questo che il detenuto che tiene una buona condotta ha diritto a 45 giorni di liberazione anticipata ogni 6 mesi scontati in carcere (fanno 3 mesi ogni anno!). Ed è sempre per questo che il condannato, una volta scontata metà della pena definitiva, può accedere all’affidamento in prova. O a quel regime di semilibertà, che, soprattutto nei casi da prima pagina, hanno fatto gridare allo scandalo. “Ha sterminato la sua famiglia, dopo 5 anni l’hanno già fatto uscire dal carcere, vergogna!”.

Condanne da scontare

Come evitare tutto questo? Bisognerebbe cambiare la Legge Gozzini del lontano 1986. E forse anche la Costituzione italiana che lo sancisce a chiarissime lettere nell’articolo 27: “Le pene… devono tendere alla rieducazione del condannato”.  Ma intanto, rispettandone il dettato e senza produrre di continuo leggi che intasano il sistema giudiziario, si potrebbe provare qualcosa di diverso. Cominciamo a far sì che le condanne si scontino con certezza, in modo più duro e duraturo, per carità, sempre a scopo rieducativo. Hai ucciso tua moglie e ti hanno dato 21 anni? In carcere ti comporti bene e ti sei pentito? Comunque minimo ne farai 19. E tutti dentro. A questo punto, forse anche i crimini come il femminicidio inizierebbero a calare. E nei talk show si parlerebbe d’altro.

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Massimo Solari è avvocato cassazionista e scrittore. Ha pubblicato diversi volumi sulla storia di Piacenza e alcuni romanzi. Ha tenuto conferenze e convegni sulla storia di Piacenza. Ha collaborato con le riviste Panoramamusei, L'Urtiga, e scrive sul quotidiano Italia Oggi.

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