Francia: il secondo turno delle elezioni legislative, con ballottaggi anche a più di due candidati (a proposito di peculiarità elettorali non solo nazionali!), ha riservato delle sorprese. Confermata l’assenza di una maggioranza precostituita in seno alla prossima Assemblea nazionale, il vincitore delle elezioni anticipate è il Nouveau Front populaire, il cartello delle sinistre egemonizzato dal tribuno Jean-Luc Mélenchon. Sul secondo gradino del podio si piazza la maggioranza presidenziale del presidente della Repubblica, Emmanuel Macron (En Marche). Soltanto terzo, il Rassemblement national di Marine Le Pen e del suo delfino Jordan Bardella, formazione di maggioranza relativa ed effimera trionfatrice al primo turno.
Scommessa vinta, ma…
L’azzardo del capo dello Stato, deciso dopo la disfatta alle Europee del mese scorso, in qualche modo sembra avere pagato. Le desistenze nei collegi uninominali tra liberali e sinistre, dentro la complice cornice delle triangolazioni, sono riuscite per l’ennesima volta a sterilizzare il voto espresso per la destra non repubblicana. E adesso?
Si vedrà. L’incertezza, però, è comunque una mezza notizia. Soltanto mezza, perché già la precedente composizione di Palais Bourbon (2022) aveva costretto Macron all’inedita situazione di due governi di minoranza (Borne e Attal). Si tratta di una notizia, ad ogni modo, ancorché non buona, perché anche la Francia si conferma iscritta al campionato d’inseguimento dello sfaldamento dei sistemi politici più consolidati.
Non sembra inopportuno approfittare della circostanza per distogliere i lettori dalla confusione tra il regime francese e quello italiano, tentazione a cui le grossolane semplificazioni del linguaggio giornalistico nazionale non si sottraggono affatto. Quando doveste sentire domandare retoricamente: “A chi darà l’incarico Macron, adesso?”, scordatevi che l’ambizioso leader sia alle prese con situazioni all’odierno Mattarella, ovvero alla Pertini di un tempo.
Da de Gaulle in poi
La Quinta Repubblica francese, regime in essere dal 1958 ad iniziativa del generale de Gaulle, non è una forma di governo parlamentare. Quindi, la Cinquième non è un regime d’assemblea. Cosa significa? Significa che i governi non si fanno in Parlamento, dove invece eventualmente possono disfarsi, senza che però le formazioni politiche riprendano successivamente in mano il pallino del gioco a loro piacere. Il governo è affare del presidente della Repubblica: lui lo nomina e, una volta nominato, l’esecutivo è immediatamente nella pienezza dei suoi poteri. Il capo dello Stato, beninteso, tiene conto della congiuntura parlamentare, determinata dall’esito delle elezioni politiche. Diversamente, il governo da lui insediato rischierebbe di subire la mozione di censura dell’Assemblea, che ne implicherebbe di diritto le dimissioni.
Macron, arbitro e giocatore
Il presidente, in quel caso, ha a disposizione la flessibilità (souplesse) delle soluzioni che la Costituzione gli conferisce. Può nominare di nuovo lo stesso primo ministro, con o senza un rimpasto ministeriale più o meno esteso. Ovvero, nominarne un altro. Oppure, sciogliere l’Assemblea nazionale ed indire elezioni anticipate; con un limite, però, in quest’ultimo caso: la fine anticipata della legislatura non può essere decretata prima che sia trascorso un anno dalle elezioni precedenti. Nella situazione attuale, cosa può accadere?
Macron non solo non è estraneo (perché superiore, o indifferente) all’attuale contingenza politico-parlamentare, bensì ne è l’autentico responsabile. È stato lui ad avere sciolto l’Assemblea dopo meno di metà della durata della XVI legislatura. Ed è stato lui, dopo il disastroso primo turno della scorsa settimana, ad avere voluto la desistenza dei suoi con i frontisti di Mélenchon, per sbarrare la strada di Matignon (residenza del primo ministro) all’astro nascente della destra lepenista Bardella. L’operazione è riuscita, ma si ripropone ora il rebus del governo.
Tenuto conto di quanto ci siamo detti, Macron potrebbe ritentare la via di un governo di minoranza, che navigherebbe in mare aperto, contando che Mélenchon e Le Pen non ne votino insieme la censura. Potrebbe, però, anche provare a battezzare un governo sostenuto da una maggioranza organica, formata dai suoi e dal Nuovo Fronte depurato dagli Insoumis di Mélenchon, a condizione che la ripartizione dei seggi interna al cartello delle sinistre glielo consenta. In tutto questo, come dicevamo, per almeno un anno di un ulteriore ricorso anticipato alle urne non si potrà parlare.
Grand’uomo e popolo
Come un pendolo, torniamo a considerazioni di stampo più generale, ancorché necessariamente imposte dalla cronaca politica. Lo spirito della Costituzione gollista consisteva nell’erezione a sistema dell’incontro tra il grand’uomo e il popolo, entrambi devoti alla Nazione (che è nient’altro che il popolo attraverso la storia). Il sistema ha retto allo stress della coabitazione, cioè ai tre casi verificatisi (Mitterrand–Chirac nel 1986, ancora Mitterrand e Balladur nel 1993 e Chirac-Jospin nel 1997) di disallineamento tra maggioranza presidenziale e maggioranza parlamentare. Più difficilmente, il sistema riesce a fare fronte alla situazione di un’Assemblea nazionale senza maggioranze coerenti, o comunque stabili.
I tempi cambiano
Il problema più grosso, però, è che sono cambiati i tempi e con loro i costumi, privati e pubblici, individuali e collettivi. Per dire solo dell’inquilino dell’Eliseo, dopo Jacques Chirac si è completamente smarrita la distinzione (affatto formale nella prassi osservata sino a quel momento sotto la Quinta Repubblica) tra il capo dello Stato come l’uomo delle grandi visioni e delle conseguenti decisioni e il primo ministro come l’amministratore dell’ordinario. Specie, poi, quando non ricorre la coabitazione, il presidente della Repubblica è implicato sino al collo in questioni di grande rilievo sociale (come, ad esempio, l’assetto del sistema previdenziale o l’andamento dei conti pubblici), ma pur sempre aride se rapportate alla tradizione del dramma storico. Non parliamo, poi, dell’autorevolezza personale, riflesso anzitutto della coerenza tra comportamenti privati e pubblici. E dell’ulteriore identificazione del capo dello Stato con una precisa parte politica, imposta dalla duplicazione dei ludi elettorali in sede europea.
Tirare o andare avanti?
Chiudiamo con un’analisi rapidissima del voto politico francese. I cugini d’Oltralpe non vogliono cambiare: forse perché, cinicamente, dubitano non solo che convenga, ma anche che chi si proclama intenzionato a farlo ci proverebbe per davvero. E, pur di non rischiare, hanno accettato spericolate desistenze elettorali, consistenti nel votare per uno dei propri due avversari storici.
Si risparmino e ci risparmino, allora, insensate drammatizzazioni del loro continuismo. Non scomodino inutilmente l’Algeria, Vichy, Napoleone, Richelieu, Francesco I, i Franchi e Vercingetorige. Tengano a mente, invece, l’esortazione conclusiva del discorso televisivo di Charles de Gaulle dell’8 maggio 1961: “Peuple français, en avant!”.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.