Giorgia Meloni tiene un profilo marcatamente basso sul Medio Oriente in fiamme, nonostante l’Italia abbia il turno di presidenza del G7: come mai? Eppure, la politica estera viene generalmente considerata l’ambito di governo in cui l’azione di presidente del Consiglio e maggioranza di centrodestra si è rivelata più efficace.
Si tratta dunque solo di prudenza, o c’è dell’altro? Proveremo a svolgere questa riflessione in una data impossibile da trascurare, il 7 ottobre. Cade oggi, infatti, il primo anniversario del pogrom di Hamas contro i civili israeliani, contrassegnato da omicidi, stupri, mutilazioni di viventi, scempi di cadaveri e presa di ostaggi. Le conseguenze di quella strage sono ancora in divenire: un gran numero dei rapiti ha perso la vita, un’altra parte (non si sa quanto numerosa, ma più passa il tempo sempre più esigua) è in attesa di un incerto rilascio. Per non parlare dell’invasione israeliana e del martellamento aereo di Gaza, con decine di migliaia di vittime civili palestinesi. E dell’effetto domino prodottosi in tutta la regione, con il coinvolgimento dell’Iran e dei diversi gruppi paramilitari, dei quali da tempo la Repubblica islamica si serve per tenere sotto pressione lo Stato ebraico.
Il Libano e il confine con Israele
Al netto della guerra ormai aperta tra Israele ed Iran, a suon di omicidi mirati e bombardamenti dagli esiti limitati e controversi, il fronte aperto più problematico è quello del Libano, in cui le truppe israeliane sono entrate via terra lo scorso 1° ottobre.
Ricapitoliamo brevemente. Lo Stato libanese, erede di una lunga dominazione ottomana, è figlio di un mandato francese stabilito dopo la Prima guerra mondiale e ha ottenuto l’indipendenza alla fine della Seconda. La sua struttura istituzionale risente della necessità di rappresentare il precario equilibrio tra le sue componenti etnico-religiose (quella cristiana e le due musulmane, sunnita e sciita). Benché lungamente estraneo al conflitto arabo-israeliano (non aveva comunque riconosciuto lo Stato Ebraico nel 1948), il Libano ha cominciato a patire guai severi quando il radicamento entro i suoi confini dell’Olp di Arafat prima e poi del partito armato filo-iraniano Hezbollah ha trasformato il sud del suo territorio in una spina nel fianco per il nord di Israele. Quest’ultimo ha colpito, invaso e temporaneamente occupato il Paese a più riprese: nel 1978, nel 1982 e nel 2006, prima di oggi. In tutte le circostanze, la motivazione è stata ed è la volontà di creare una zona-cuscinetto a ridosso del confine, onde impedire attacchi contro lo Stato ebraico.
Dopo l’invasione israeliana del 2006, che ha però fallito il proposito dello sradicamento di Hezbollah, e le relative distruzioni, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha adottato all’unanimità la risoluzione 1701, che prevedeva, dopo il ritiro di Israele, lo schieramento in Libano di una forza d’interposizione a due corni. Gli uomini di Unifil (la missione Onu) dovevano garantire l’osservanza della zona di rispetto tra i due Paesi e prestare assistenza ai civili. Gli effettivi delle Forze armate libanesi avrebbero dovuto provvedere al disarmo di Hezbollah. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: Hezbollah largamente padrone del Libano meridionale, migliaia di israeliani evacuati causa tiri insistiti di missili e razzi sulle loro case e i loro terreni, nuova invasione da parte di Israele dopo un’intensa opera di eliminazione dei vertici della formazione filo-iraniana grazie a bombardamenti massicci su Beirut.
Il contingente italiano in Libano
Veniamo all’Italia. Il nostro Paese è impegnato nelle operazioni di peacekeeping in Libano sin dal 1982 (missione Italcon). Nel 2006, la nostra presenza è stata rinnovata (missione Leonte), sempre sotto le insegne Onu (Unifil): abbiamo circa 1.200 militari dei 10mila forniti da 50 Paesi alle Nazioni Unite. Attualmente i nostri uomini, appartenenti alla Brigata Sassari, sono comandati dal generale Stefano Messina, che dirige anche l’intero Settore Ovest della missione militare internazionale.
È dei giorni scorsi la conferma della permanenza del nostro contingente nazionale e la notizia del diniego di ricollocamento dell’intero schieramento Onu, pure a fronte della richiesta dell’Idf (Israel Defence Forces) in tal senso. Sarebbe inutile nasconderselo, però: con uno stato di guerra aperta, è difficile mantenere sia la finzione del peacekeeping a cui l’Italia è affezionatissima per molte ragioni, sia il sangue freddo occorrente per restare. E infatti, sia pure sotto forma di indiscrezioni e retroscena, che l’evacuazione dei militari italiani sia un’ipotesi contemplata è stato detto e scritto. Certo, sarebbe difficile per noi assumere una decisione unilaterale di questo tipo, essendo ingaggiati sul terreno insieme ai contingenti di un gran numero di altri Paesi.
Senza presa militare e diplomatica
Quali sono dunque, secondo noi, le ragioni del basso profilo tenuto da Meloni sulla tempesta mediorientale? Due, essenzialmente. La prima, per ordine d’importanza, è la nostra incapacità di presa sulle forze che si combattono. Per nostra mancanza d’influenza intendiamo non solo quella dell’Italia singolarmente intesa, ma anche quella dell’Unione europea di cui siamo parte integrante, nonché quella del formato G7 che altro non è se non un tipo di incontro al vertice occidentale a carattere assolutamente informale.
Parlando dell’Italia in particolare, c’è bisogno di ricapitolare le ragioni per cui siamo militarmente e, quindi, diplomaticamente irrilevanti? La sconfitta nella Seconda guerra mondiale e le successive integrazione e subordinazione nell’area d’influenza statunitense. Il radicamento presso di noi di culture alternative per principio al realismo politico e, così, alla contemplazione del ricorso alla forza (il pacifismo cattolico e l’internazionalismo di matrice marxista). Non trascurabile è pure la refrattarietà, maturata nel tempo, ad accettare l’idea di sacrificio, nel senso basico di rinuncia a qualcosa oggi in vista di qualcos’altro domani. In sintesi: la debolezza estrema, per non dire direttamente l’evanescenza, dell’interesse nazionale.
Doppi pesi e credibilità
Accanto a questa ragione prioritaria e di fondo, a consigliare a Meloni un basso profilo sul Medio Oriente in fiamme è l’imbarazzo non eludibile da chi, come la presidente del Consiglio, ha detto e fatto sull’Ucraina tutto ciò che oggi non dice, né può fare sul Libano. Ricordate? «Non possiamo lasciare prevalere il più forte. Dobbiamo sostenere il più debole, l’invaso, di modo che il più forte, l’invasore, essendo consapevole di non potere vincere sia obbligato a trattare». Figuriamoci se non dovrebbero arrossire tutte le classi dirigenti dell’Occidente, che mentre invocano il cessate-il-fuoco riforniscono di armi Israele e, per quanto riguarda gli Usa, gli prestano tutta l’assistenza necessaria con garanzie (politiche, prima ancora che materiali ed operative) illimitate.
Sappiamo bene che la situazione tra lo Stato ebraico e il Paese dei cedri non è identica a quella tra Russia e Ucraina. Chi porta responsabilità politiche, per parte sua, sa che è meglio essere sempre prudenti, anziché spararle grosse in certi casi e fingere di cadere dalle nuvole in altri? Almeno, dopo, non lamentiamoci che la politica goda di cattiva fama e soffra di disaffezione popolare.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.