Giorgia Meloni e la riforma costituzionale sul premierato: il governo dice di avere fatto un passo avanti, invece ne ha fatti due indietro. Così e nostro malgrado, diamo un doppio dispiacere alla presidente del Consiglio, affibbiandole il titolo di un libello polemico di Lenin e criticando forma e contenuto della sua proposta.
Il testo licenziato dal Consiglio dei ministri di venerdì scorso è quello anticipato nei giorni precedenti. L’abbiamo già illustrato e lo diamo per conosciuto.
Elezione diretta nel nulla costituente
La prima cosa che salta all’occhio è la radicale limitatezza dell’intervento riformatore. Non c’è nulla (e questa mancanza è stata addirittura rivendicata dalla presidente del Consiglio) sul capo dello Stato. Nulla sul potere Legislativo e sui suoi rapporti con l’Esecutivo. Nulla sul potere Giudiziario. Nulla sulla giustizia costituzionale. Nulla sulla revisione costituzionale. Nulla (per dire di una questione che recentemente, con il caso del magistrato Iolanda Apostolico, sembrava avere dato non poco pena) sui rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario. Nulla sul referendum.
Se il problema era poter dire di avere dato corso a una promessa elettorale, siamo a posto. Per modo di dire, naturalmente: perché mancano, come detto, un sacco di cose essenziali e il risultato finale è tutto da vedere. Comunque, un pezzo di carta da brandire è stato scritto e depositato.
La via dell’articolo 138
Poco più di un anno fa, scrivevamo che l’allora capo del governo in pectore avrebbe potuto scegliere la via di una commissione bicamerale per le riforme. Ne additavamo tutti i limiti, riassumibili nella probabilità che non cavasse il proverbiale ragno dal buco. Ne avevamo, però, anche sottolineato un pregio e cioè l’elementare presa d’atto – per onestà intellettuale – che la revisione costituzionale secondo l’articolo 138 della Carta in vigore è impossibile, perché adeguata solo a cambiamenti limitati e di dettaglio. Giorgia Meloni, per parte sua, sembrava consapevole del fatto che occorresse ben altro, in fatto di ampiezza del respiro e vastità della portata. Alla prova dei fatti, invece, ha optato proprio per quest’ultima soluzione, già abortita due volte dai suoi predecessori.
Il disegno di legge costituzionale sul premierato presentato nei giorni scorsi apparentemente vorrebbe cambiare la forma di governo, ma non si capisce come si possa pensare ci riesca, anche ove venisse approvato, senza toccare nessun altro aspetto dell’ordinamento repubblicano. Nella proposta presentata, manca soprattutto l’attribuzione al popolo dell’ultima parola, in ogni caso, in materia costituente: questo è assolutamente imperdonabile.
La diarchia irrisolta
Il principale punto dolente pratico del progetto governativo è l’irrisolutezza della questione presidenziale. Giorgia Meloni, presentando in conferenza stampa il progetto di legge, si è vantata di «avere deciso di non toccare le competenze del presidente della Repubblica, salvo ovviamente per quello che riguarda l’incarico al presidente del Consiglio». Il motivo dichiarato? Leggiamo ancora Meloni: «Il ruolo del presidente della Repubblica viene da tutti considerato, anche dalla stragrande maggioranza dei cittadini, come un ruolo di assoluta garanzia e quindi come un totem». Ammesso e non concesso che queste asserzioni corrispondano al vero, cosa c’entra?
Se c’è uno Stato, dev’essercene il capo. O è il monarca (ormai solo costituzionale), o è il presidente della Repubblica. Mantenere la giustapposizione/contrapposizione tra quest’ultimo e la figura che presiede il Governo è insostenibile, perché il capo dello Stato è comunque al vertice del potere Esecutivo. Se fosse un monarca, sarebbe chiaro che la sua preposizione alle dinamiche politiche e normative riuscirebbe meramente formale. Siccome, però, nel nostro caso non si tratta di un monarca, la diarchia va risolta nel senso della prevalenza del capo dello Stato su quello del governo.
Pensare di cavarsela ancora con la pelosa formula del «ruolo di assoluta garanzia» è onestamente impossibile. Il presidente della Repubblica eletto dal Parlamento è una garanzia solo per il Parlamento, cioè per i partiti che lo compongono. Il suo mandato, indiretto, continua a contrapporsi a quello, anche a Costituzione invariata sostanzialmente diretto, di chi guida il governo. È il presidente della Repubblica che bisogna lasciare eleggere dal suffragio universale.
Meloni si adatta al potere diffuso
Dovendo barcamenarsi con i partiti della sua coalizione, che per quest’aspetto sono partiti come tutti gli altri e con il proprio stesso partito, Giorgia Meloni fa finta di illudersi che basti provare a inchiodare a palazzo Chigi il presidente del Consiglio indicato sulla scheda elettorale. Salvo, come fatto notare da qualcuno, dare un maggiore potere di persuasione (con la minaccia di scioglimento inevitabile delle Camere) al secondo esponente della maggioranza eventualmente chiamato alla guida dell’esecutivo, pur col vincolo del medesimo programma.
La foga, scolpita nella proposta del premierato, con la quale si vorrebbe impedire la formazione dei cosiddetti governi tecnici, si risolve nella compressione della flessibilità della Carta in momenti di crisi: in generale, non è una buona idea. I sedicenti governi tecnici, in una Repubblica parlamentare, sono un’ancora di salvezza gettata ai partiti che non vogliono le elezioni anticipate. E gliela getta un presidente della Repubblica che condivide la contrarietà allo scioglimento, perché teme egli pure la vittoria dei favoriti.
Può farlo? Sì, perché si appella alla natura parlamentare della forma di governo. Natura parlamentare significa potere diffuso: tendenzialmente debole con i forti e forte con i deboli, che non piace a tutti ma non scontenta nessuno; che media, compromette, spartisce. Insomma: che non disturba gli interessi particolari, siano essi di consorteria o anche semplicemente individuali.
Chi crede nel premierato?
Non ci meraviglieremmo di una vignetta di Osho, con Giorgia Meloni che si compiace di essersi (per così dire) levata il peso di presentare la proposta del cosiddetto premierato. Battute a parte, se pensassimo alla Gran Bretagna, dove il premier c’è per davvero e la Costituzione non è scritta, capiremmo meglio che la volontà è determinante per poter fare e non fare qualunque cosa.
Poiché, però, questa necessaria consapevolezza non implica che, dove la Costituzione è scritta (come da noi), ci si possa disinteressare di migliorarla, speriamo che le cose cambino, durante l’iter del ddl costituzionale. Il vizio, però, è originario. La presidente del Consiglio non avrebbe dovuto volere assumere istituzioni inefficaci; o meglio, avrebbe dovuto subordinarne l’assunzione all’efficientamento.
Invece, ha detto che, ove pure si arrivasse al referendum sul premierato e la sua proposta dovesse essere respinta, questo non avrebbe conseguenze per lei e il suo governo. Si dirà che Meloni non vuole ripetere l’errore di Matteo Renzi, ma chi vuole intendere capisce anche quanto poco lei stessa sia convinta di ciò che ha proposto.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.