Giorgia Meloni è nata e cresciuta nell’alveo del Msi e così dell’arco costituzionale. Per i più giovani ricordiamo che era una conventio ad excludendum ideata soprattutto dalla Democrazia cristiana. Il Movimento sociale italiano era fuori dall’arco costituzionale perché non si riconosceva nei valori dell’antifascismo; ma in particolare perché non era presente nel momento di formazione della carta costituzionale. Questa esclusione, spocchiosa e tutto sommato inutile, ha senza dubbio pesato sulla scelta della Meloni di presentarsi in questi giorni alle forze di opposizione per riscrivere assieme la carta fondamentale.
Le regole del gioco
L’articolo 138 della Costituzione regolamenta il sistema di modifica della stessa: il primo comma ordina il doppio passaggio parlamentare, che diventa quadruplo dato che deve passare due volte alla Camera e due al Senato e a distanza di tre mesi tra la prima e la seconda votazione. Il terzo comma prevede che se la modifica non è approvata dai due terzi dei parlamentari (maggioranza qualificata) entro tre mesi dalla approvazione definitiva, un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali possono chiedere il referendum popolare sulle modifiche.
Per dire, il referendum del 2016 ha abrogato la riforma Renzi-Boschi e ha precipitato Matteo Renzi dal 40% delle europee del 2014 al 22% delle europee del 2019. A scuola ci insegnavano che la nostra Costituzione è di tipo rigido: per essere modificata occorrono una serie di passaggi che rendono difficoltoso maneggiarla. E proprio la tagliola del referendum consiglia se non impone di trovare un accordo tra il maggior numero possibile di forze politiche. In politichese tutto questo si traduce nello slogan di Giuseppe Conte: «Non si riforma la Costituzione a colpi di maggioranza».
Pane e riforme
Giorgia Meloni ha sentito parlare di riforme costituzionali e di differenti forme di governo (presidenziale; premierato; sfiducia costruttiva; semipresidenziale; alla tedesca, alla francese, sindaco d’Italia) fin dai suoi primi accessi nella sede del Msi della Garbatella, dunque è cresciuta a pane e riforme. All’epoca, Gianfranco Fini era innamorato del sistema presidenziale alla francese, ma colei che i detrattori chiamano spesso «la ducetta» non sembra pensarla allo stesso modo.
Da quanto abbiamo capito Meloni è ben conscia di maneggiare un’arma pericolosa per l’Italia e anche per sé medesima e per il suo governo. Nell’opera di riforma si sono cimentati invano il costituente liberale Aldo Bozzi nel 1983-85, dieci anni dopo Ciriaco De Mita e Nilde Jotti, tra il 1997 e il 1998 Silvio Berlusconi e Massimo D’Alema e, infine, nel 2016 Matteo Renzi.
Il patto fallito
Le uniche riforme importanti si sono ottenute tra il 1999 e il 2001 con percorsi molto travagliati (infatti non portano nell’intestazione nessun nome «famoso» della politica) e con referendum popolari a confermarle. Col «patto di Lorenzago» (paese del Cadore) si era anche pensato di varare una riforma costituzionale di stampo federale, fortemente voluta dalla Lega di Umberto Bossi e appoggiata da Giulio Tremonti e di approfittarne per abolire il terzo comma del 138 ed eliminare il rischio referendum. Non se n’è fatto niente perché il referendum del giugno 2006 abrogava la proposta di modifica.
Con o senza opposizioni
La premier si è presentata al tavolo delle trattative nel modo migliore possibile: questi sono i problemi (soprattutto la governabilità), discutiamo le possibili soluzioni senza uno schema prefissato. Com’era ovvio, gli stessi che hanno criticato Giorgia Meloni perché si era presentata il 30 aprile ai sindacati col decreto lavoro già confezionato, hanno criticato la sua mancanza di proposte concrete.
La presidente del consiglio però ha dichiarato che andrà avanti comunque. Con o senza l’apporto delle opposizioni: dipende solo da loro, ha detto Giorgia Meloni. E soprattutto da Elly Schlein, perché sembra che il duo Calenda–Renzi si sia messo di buzzo buono a lavorare alle riforme, mentre Conte sembra ormai perso nel suo populismo d’accatto.
Sarà questa la volta che proprio il Partito democratico si chiamerà fuori dal nuovo “arco costituzionale”?
(articolo pubblicato su ItaliaOggi)
Massimo Solari è avvocato cassazionista e scrittore. Ha pubblicato diversi volumi sulla storia di Piacenza e alcuni romanzi. Ha tenuto conferenze e convegni sulla storia di Piacenza. Ha collaborato con le riviste Panoramamusei, L'Urtiga, e scrive sul quotidiano Italia Oggi.