Giorgio Napolitano: scompare a 98 anni una persona seria, un comunista ambiguo e, ad onta della vulgata, un presidente della Repubblica secondo tradizione. Tanto rispettoso della tradizione dei capi dello Stato repubblicano italiano, da essere (anche se per un insieme complesso e casuale di ragioni) per primo rieletto nella carica, 10 anni fa.
I dati essenziali della biografia di una personalità tanto nota e rilevante sono agevolmente rinvenibili e saranno, nei prossimi giorni, insistentemente rilanciati. Qui tenteremo qualche analisi degli aspetti più significativi della vicenda politica e istituzionale dell’ex presidente.
Comunista, ma…
Cominciamo dall’inizio, cioè dal Partito comunista italiano. Di questa formazione, l’illustre scomparso è stato indubbiamente un dirigente importante e influente. Di qui, tuttavia, a dire che egli abbia rappresentato una reale alternativa a Enrico Berlinguer per la successione di Palmiro Togliatti (dopo l’interregno di Luigi Longo), ne corre. La successione, nel Pci, era una questione già definita prima che si producesse. La “chiesa” comunista osservava regole non meno ferree di quella clericale; e come quest’ultima faceva della cooptazione la propria porta d’accesso necessaria.
Napolitano accompagnava il Migliore a Napoli o in qualche convegno; ma nella Direzione del partito Berlinguer entrò prima di Napolitano, addirittura nel 1948 come responsabile della Fgci. Specularmente, il leader sardo è diventato deputato (1968) assai dopo l’esponente campano (1953). Nel Pci, l’appartenenza al vertice contava più della stessa titolarità di un mandato elettivo, benché normalmente le due posizioni coincidessero nelle medesime personalità.
Vicino a Giorgio Amendola, dal quale aveva ereditato l’informale guida della cosiddetta destra del Pci (i “miglioristi”), Napolitano ha rappresentato l’istanza comunista più consapevole della necessità di coltivare il rapporto con il Partito socialista italiano. Nonché, dell’opportunità di radicare saldamente la “via italiana al socialismo” nel blocco atlantico occidentale. Ciò gli è valsa la responsabilità del settore Esteri di Botteghe Oscure, a cui ha aggiunto, dal 1981 al 1986, la presidenza del gruppo comunista alla Camera. L’ambiguità di Napolitano in quanto comunista è stata, secondo noi, non tanto nell’osservanza sovietica iniziale, quanto nella scelta di restare nel partito sino al suo scioglimento (1991), nonostante le posizioni da lui sostenute consistessero ormai da tempo in un’opzione sostanzialmente socialdemocratica.
La scalata alle Istituzioni
La riconversione del Pci in Pds ha consentito a Napolitano di iniziare un breve, ma intenso cursus honorum istituzionale. Terzo presidente della Camera di estrazione comunista (dopo Pietro Ingrao e Nilde Iotti), è succeduto una prima volta a Oscar Luigi Scalfaro sullo scranno più alto di Montecitorio, lasciato dal politico piemontese per il Quirinale, nell’anno delle stragi 1992. Quindi, nel 1996, Romano Prodi lo ha voluto ministro dell’Interno nel governo della rivincita sull’usurpatore della politica (tale era visto dagli epigoni della classe dirigente del dopoguerra), Silvio Berlusconi.
Bisogna ammettere che sono bastati questi due brevi mandati (entrambi di durata biennale) per fare additare Napolitano, da una stampa almeno benevola se non amica, quasi come un civil servant anglosassone, anziché uno sperimentato dirigente italiano di partito, quale effettivamente era sempre stato. In tempi caldi sul fronte dell’immigrazione, ricordiamo che nel 1998 egli ha firmato, insieme con Livia Turco, la seconda disciplina generale della materia (dopo la legge Martelli e prima della Bossi-Fini, tuttora in vigore).
Due volte al Colle
Nel 2006, al termine del settennato di Carlo Azeglio Ciampi, la risicata maggioranza di centrosinistra appena sortita dalle urne sceglie di puntellarsi al massimo livello. E così Napolitano, nominato senatore a vita appena un anno prima, viene eletto 11° presidente della Repubblica Italiana. Il secondo governo Prodi dura, comunque, poco quanto il primo, sicché per tre anni (dal 2008 al 2011), i destini dell’antico migliorista si incrociano con quelli del Cavaliere, per la quarta e ultima volta inquilino di palazzo Chigi. Il rapporto tra i due, nato apparentemente sotto i migliori auspici del 1994 (quando Berlusconi, teatralmente, era andato a stringere la mano all’ex parlamentare comunista nell’emiciclo della Camera), si deteriora dopo due anni.
Il concorso delle inchieste sull’eccentrica vita privata del presidente del Consiglio, della fronda interna al centrodestra di Gianfranco Fini e della speculazione finanziaria internazionale in danno dell’Italia, spinge il leader del Pdl alle dimissioni dal governo. Seguirà l’esperienza di Mario Monti, da Napolitano nominato senatore a vita quattro giorni prima di conferirgli l’incarico di formare l’esecutivo. Berlusconi sul momento incassa, sostenendo il tentativo dell’uomo della Bocconi.
Poi, nel 2013, manca di un soffio l’ennesima rimonta elettorale. E, di fronte all’uragano 5 Stelle e allo sfaldamento del Pd proprio in occasione dello scrutinio presidenziale per dare un successore a Napolitano (i famosi 101 franchi tiratori che impallinano Prodi), domanda al presidente uscente di trattenersi ancora al Quirinale. Giorgio Napolitano diventa così, il 20 aprile 2013, il primo capo dello Stato rieletto per un secondo mandato, con voto quasi plebiscitario. Andrà avanti per poco meno di due anni: gli basteranno per congedare (con rammarico) dal governo delle «larghe intese» Enrico Letta e investire l’uomo nuovo (e meteora) Matteo Renzi.
Il Cavaliere, comunque, dopo la condanna definitiva per frode fiscale e la decadenza dal Senato in applicazione della legge Severino, non si trattiene più con l’ex rispettato Napolitano. Lo accusa di avere tramato contro di lui su tutti i fronti, compreso quello giudiziario (la citata condanna per frode tributaria e il risarcimento-monstre in favore di Carlo De Benedetti).
Tradizione parlamentare e non governativa
In che senso, a nostro parere, Giorgio Napolitano è stato un presidente tradizionale? Nel senso che ha praticato, come i suoi predecessori e il suo successore, una solidarietà asimmetrica verso il potere Legislativo da cui derivava l’elezione e quello Esecutivo, al cui vertice comunque si è trovato. Certo, Napolitano era personalmente e politicamente più a suo agio con Prodi e Letta che non con Berlusconi. Il punto, però, era ed è la devozione al parlamentarismo, non razionalizzato né razionalizzabile in Italia. È il sistema in cui tutti sono necessari e nessuno è indispensabile. Tale devozione ha voluto dire, nel 2010-2011, nessun gioco di sponda del Quirinale in favore di palazzo Chigi: che se la cavasse da solo, il governo; il potere da salvaguardare in Italia è quello diffuso, cioè più condiviso e, per questo, meno responsabile.
Ci sono tanti altri aspetti della vicenda politica dell’ex presidente che meriterebbero attenzione e approfondimento. Ad esempio, i due mandati da europarlamentare (1989-1992 e 1999-2004) e, da presidente della Repubblica e del Csm, le frizioni con alcune istanze della magistratura requirente. Ovvero, ancora, il ruolo giocato per parte italiana nella guerra libica, voluta dagli anglo-francesi per la rovina di Gheddafi. Tempo e spazio non ce lo consentono. Resta il doveroso riconoscimento della serietà e del rigore personale di Giorgio Napolitano, nel momento del congedo: quando sarà passato un tempo sufficiente, sarà la Storia ad articolare il giudizio.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.