Conte 2: il respiro del governo è affannoso. Non sono passati ancora 2 mesi dal giuramento nelle mani del capo dello Stato e c’è già aria di burrasca. L’annunciata sconfitta giallo-rossa nelle regionali in Umbria, tramutatasi in disfatta a causa delle sue proporzioni, sembra affrettare lo show down.
Le elezioni regionali in Emilia-Romagna il 26 gennaio prossimo, in caso di vittoria del centrodestra a guida Salvini, metteranno davvero fine al governo 5 Stelle-Pd? E finirà anche la legislatura, senza neanche dover aspettare la tornata amministrativa di primavera con altre 6 Regioni al voto? Oppure l’ambizione di arrivare a scegliere il successore di Sergio Mattarella spingerà comunque questo Parlamento verso la scadenza naturale, nel 2023?
Nessuno ha la palla di cristallo, ma su quanto è già avvenuto e sta avvenendo, invece, si può fare un’analisi.
La rivincita degli elettori
In primo luogo, l’operazione che ha dato vita al governo 5 Stelle-Pd è sembrata più sfrontata che spregiudicata. Ciascuna delle due forze politiche aveva sino ad allora considerato l’altra la propria nemesi naturale. E aveva rappresentato chiaramente al Paese l’irriducibilità delle rispettive posizioni praticamente su tutto.
L’esperienza del Movimento di un anno di governo con la Lega, agli occhi dei Democratici, ne aveva svelato l’anima populista e di destra. Per i seguaci di Beppe Grillo, invece, il Partito democratico non era nient’altro che il “Pd meno elle ” denunciato per tanti anni, cioè l’altra faccia del Pdl di Berlusconi, di una politica sbagliata e addirittura corrotta, da archiviare per sempre. È bastato però che Matteo Salvini abbia aperto prima di Ferragosto la crisi del primo governo Conte per cancellare 10 anni di lotta e colpi bassi.
Gli elettori sono sempre meno disposti a far finta di niente. Un tempo c’erano degli ideali e alcune ideologie. Oggi dominano non solo gli interessi di parte, ma anche quelli individuali delle singole personalità politiche. Un voltafaccia come quello compiuto dando vita al governo Conte 2 non può non venire castigato. Resta da vedere in che misura e per quanto tempo i cittadini si prenderanno le loro rivincite.
Azioni e omissioni
In secondo luogo, noi italiani dobbiamo mettere in conto le conseguenze delle nostre azioni e omissioni. Denunciare gli sbagli e le mancanze delle classi dirigenti non basta, se poi ne avalliamo i comportamenti meno virtuosi. Nel 2006, il corpo elettorale respinse la proposta di riforma costituzionale targata Berlusconi–Bossi e ribattezzata “devoluzione”. Nel 2016, una valanga di “No” ha sommerso la proposta su cui Matteo Renzi aveva messo la faccia, diventata nel frattempo invisa ai più. A entrambi i tentativi si potevano muovere dei rimproveri e il secondo era ancor meno ambizioso del primo. Ma entrambi, almeno, avevano il pregio di non aderire alla logica dell’immobilismo, o peggio direttamente del ritorno al passato.
Una prospettiva, quest’ultima, che si sta ora gradualmente avverando. Luigi Di Maio dichiara che il Movimento 5 Stelle – elettori permettendo e non pare! – si ritaglia il ruolo di ago della bilancia dei governi dei prossimi 10 anni. Matteo Renzi si è fatto una sua formazione personale e ha spinto il Pd all’esperimento giallo-rosso dopo averlo lungamente boicottato. Tutte le forze politiche, tranne la Lega, si dichiarano più o meno apertamente a favore del ritorno alla formula elettorale proporzionale.
Bisogna prendere atto che l’Italia preferisce tuttora un potere politico debole, diffuso e auto-riferito, nel quale odiare a mo’ di capro espiatorio la parte meno nobile di se stessa.
Tra strategia e tattica
Quanto a Salvini, alla Lega e al centrodestra, bisogna distinguere tra strategia e tattica. La mossa leghista di spingere alle dimissioni il Conte 1 è da ascrivere prevalentemente al secondo ambito. Il sospetto che l’ex titolare del Viminale si sia sfilato dal governo per non dover fare una manovra che avrebbe certificato l’insostenibilità di certe sue promesse è forte. Ma l’anno prossimo o fra 3 anni non cambierà granché. L’Italia ha un debito pubblico enorme e una crescita al palo da una trentina d’anni. Le élite, la burocrazia europea e l’euro non fungono da alibi a fronte di questi macigni.
Di una buona strategia fa parte anche non sottovalutare le dinamiche istituzionali. Il governo nazionale è distinto dalle amministrazioni regionali. Politicamente, un rovescio generale sui territori (peraltro già in atto) è molto rilevante, ma non sussistono automatismi. La Lega ha già sperimentato la capacità di resistenza dei suoi avversari e dei singoli parlamentari alla prospettiva di tornare a casa. E la suggestione dell’elezione presidenziale del 2022 è forte e ormai sfacciatamente dichiarata. Già Berlusconi, ai suoi tempi, mancò sempre la maggioranza quando si trattava di eleggere il capo dello Stato. Salvini dovrebbe sforzarsi di non imitarlo.
Il cigno nero
Il punto debole del quadro politico potrebbe rivelarsi la tenuta del Movimento 5 Stelle, a partire dai suoi gruppi parlamentari. I risultati elettorali sono in caduta libera, con milioni di voti in fuga. La rottura personale e anche politica fra Di Maio e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte sembra evidente. Il professore si considera ormai il garante dell’abbraccio del Movimento con i progressisti, benedetto da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Il ministro degli Esteri, anche a salvaguardia del suo ruolo personale, continua invece a disfare in pubblico la tela che Conte tesse a palazzo Chigi.
Il Pd col suo capo delegazione ministeriale Dario Franceschini è ben allenato a stare comunque al governo. Renzi e Italia Viva hanno bisogno di tempo e difficilmente romperanno. Bisognerà vedere se il “cigno nero” assumerà le forme del logoramento, dell’implosione o anche solo della scissione dei 5 stelle.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.