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Il presidente Mattarella fa il garante della politica estera italiana: giusto così?

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Sergio Mattarella e Wang Yi

Il presidente Mattarella e il ritorno in grande stile dei vincoli esterni: è questa la nota dominante della nostra attualità politica. Non è solamente questione della priorità della politica estera su quella interna. È questione dell’assunzione di determinate scelte interne, per non dire dello stabilimento di determinate dinamiche tra i diversi organi dello Stato, in ragione di questi stessi vincoli. Vincoli che, più semplicemente, sono i desiderata altrui (non solo, anche se prevalentemente, degli alleati) riguardo al nostro modo di stare e di fare nelle relazioni internazionali.

Mattarella e il caso Wang Yi

Si è detto dell’influenza dei vincoli esterni sui rapporti tra organi dello Stato. Pensiamo, ad esempio, a come si pretende, da parte di alcuni, di fare evolvere la competenza del capo dello Stato in fatto di politica estera. Consideriamo l’udienza concessa in forma ufficiale, venerdì scorso, da Sergio Mattarella al signor Wang Yi, plenipotenziario per le relazioni internazionali del leader cinese Xi Jinping. Il capo dello Stato era assistito dal ministro degli Esteri Antonio Tajani.

L’incontro è stato tutto, fuorché routinario. In primo luogo, per la speciale qualifica rivestita dall’ospite. In passato ministro degli Esteri di Pechino, oggi Wang è consigliere di Stato e direttore dell’ufficio della Commissione centrale per gli affari esteri del Comitato centrale del Partito comunista cinese. È un uomo di fiducia del partito unico e del segretario generale. In secondo luogo, è stato ricevuto a Roma per ripetergli che Nato ed Europa si aspettano che la Cina convinca la Russia a desistere dal proseguire nell’invasione dell’Ucraina.

Presidenzialismo “estero”

Resta un interrogativo, in tutti i casi. Qual è la fonte di legittimazione sostanziale di una così rilevante competenza, in materia di politica estera, del presidente della Repubblica Italiana? In punta di diritto, ci si può appellare solo alla laconicità delle disposizioni della Costituzione. In verità, ce n’è una sola. È l’articolo 87 della Carta. Al comma 8 dispone: “(Il presidente della Repubblica) accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere”.

Com’è stata interpretata questa norma? Per decenni, nessuno ha mai pensato che il capo dello Stato potesse condurre in proprio la politica estera del Paese. Il presidente, nelle occasioni di accreditamento degli ambasciatori e, ovviamente, incontrando i propri omologhi, si è sempre limitato a fare eco alle posizioni del governo. E, in effetti, quando viaggia all’estero, è quasi sempre accompagnato dal titolare della Farnesina, a ricordare che anche l’indirizzo politico internazionale compete all’esecutivo. Pure giorni fa al Quirinale, in occasione dell’udienza a Wang, Tajani era presente ai colloqui.

Il punto, comunque, è che da alcuni anni, cioè sotto i mandati dei due presidenti rieletti Napolitano e Mattarella, si è preso a dire (apoditticamente, da parte del mainstream) che il presidente della Repubblica sarebbe il garante dei trattati e della collocazione internazionale del Paese. Questo, però, eccede vistosamente le competenze costituzionali del capo dello Stato. Infatti, egli è titolare, nel nostro ordinamento, di una carica sprovvista di autonoma facoltà di indirizzo politico. Per cui, donde attingerebbe queste penetranti attribuzioni di merito politico? Non ci pare di poter rispondere altro, che dai vincoli esterni.

Mai liberi…  

A parole, abbiamo deprecato che, per quarant’anni, la nostra collocazione internazionale e il nostro stesso assetto politico interno siano stati bloccati e condizionati dalle “circostanze internazionali”. Si trattava di una pudica figura retorica, per non dire la sconfitta nella Seconda guerra mondiale e l’integrazione nel blocco atlantico sotto l’egida statunitense (al di qua della “cortina di ferro”). Di fatto, per quel vincolo informale – mai venuto meno, in realtà – abbiamo maturato così tanta nostalgia, da pensare di riproporlo sotto le spoglie del “rispetto dei trattati”, di cui il capo dello Stato sarebbe garante. Più prosaicamente: il presidente della Repubblica sarebbe tenuto ad impedire ai governi di mutare la politica estera.

Ora: a parte il fatto che nessuno ha mai pensato di sconvolgere la nostra collocazione internazionale e che questo, ovviamente, non sarebbe nemmeno conveniente, quali sono i punti deboli dei vincoli esterni, per chi li sopporta? Uno, è certamente la diminuzione della sovranità e dell’indipendenza. Principi che, ove rispettati, preservano la possibilità, anche in costanza di alleanze storiche, di un modo autonomo (più assertivo e meno al traino) di stare nella comunità internazionale. 

Di lotta e di governo

Un altro punto debole dei vincoli esterni, ancora più importante, è che essi non responsabilizzano quanti li subiscono. Donde, in politica interna, le decisioni che ne conseguono vanno sempre stemperate e in parte sminuite, i loro contenuti addirittura selettivamente secretati. E poi c’è sempre, nell’ambito delle maggioranze di governo, chi si smarca in piazza (fisica o mediatica) pur consentendo in sede istituzionale: la famosa condotta “di lotta e di governo”.

Vi dice qualcosa l’ultimo smarcamento di Silvio Berlusconi sull’Ucraina, nonostante i voti di Forza Italia non siano mai mancati in Parlamento al super-atlantismo del governo Meloni? Oppure, sempre parlando della guerra ad est, del segreto (più o meno malcelato) sul tipo di sostegno militare nazionale prestato a Kiev? Per non dire di 25 anni fa, con alcuni ministri di Massimo D’Alema ai cortei contro l’intervento militare in Kosovo, deciso dal governo di cui facevano parte.

Meglio regole nuove

Il presidente Mattarella ha sicuramente concordato con il governo il contenuto del suo incontro con il funzionario del partito unico cinese. Sarebbe, comunque, meglio se una maggiore responsabilità del capo dello Stato sulla politica estera e di difesa venisse scritta in Costituzione da nuovi costituenti, anziché affermata apoditticamente dalla grande stampa e fondata su vincoli esterni, che speravamo appartenere al passato.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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