Lenin: il 21 gennaio 1924, moriva a 53 anni il fondatore dell’Unione Sovietica e più famoso rivoluzionario della storia. A un secolo esatto di distanza, cosa resta dell’opera di un uomo come pochi idolatrato – al punto da essere imbalsamato e permanentemente esposto, come avviene tuttora sulla Piazza Rossa a Mosca – ma anche avversato e odiato?
L’interrogativo che ci poniamo esige una risposta impietosa: non resta, infatti, quasi nulla dal punto di vista della concretezza e dell’attualità. Se non, naturalmente, il superamento dell’esasperata arretratezza socio-economica russa, che probabilmente sarebbe stata comunque archiviata, anche da un riformismo di carattere non radicalmente rivoluzionario. Ed è impietoso rilevare l’impermanenza dei risultati di Lenin, quando per unanime ammissione, tra le sue qualità personali, spiccavano l’efficacia dell’azione e la funzionalità della condotta.
La famiglia, l’uomo e il leninismo
Vladimir Il’ič Ul’janov era nato nel 1870 a Simbirsk, oggi in suo onore Ul’janovsk, nella Russia europea. Di famiglia borghese e conservatrice (i genitori erano entrambi insegnanti e monarchici per convinzione), come i suoi fratelli aveva fatto tutt’altra scelta, quella dell’attivismo politico, anzi dell’agitazione al limite della cospirazione. Pare sia stata l’esecuzione di Aleksandr (1887), il fratello maggiore del futuro capo bolscevico, accusato di avere complottato contro la vita dello zar Alessandro III, ad avere dato l’avvio al percorso politico di Vladimir.
Non è il caso di ripercorrere qui la biografia di Lenin, che si intreccia con le vicende della Rivoluzione russa, o meglio, delle rivoluzioni russe. Ci basta stimolare la curiosità e la memoria dei lettori, che magari andranno a scorrere un tablet (meglio ancora, a sfogliare un vecchio libro di storia scolastico) per riprendere le coordinate essenziali del personaggio e del periodo. Ci sembra più interessante riflettere sul leninismo. La centralità dell’insegnamento di Lenin, nell’ambito del panorama comunista e rivoluzionario internazionale, è stata tale da far sì che il suo nome venga associato a quello di Karl Marx, nel ben noto binomio del marxismo-leninismo. In qualche modo, è come se si intendesse: dottrina-pratica, per quanto Lenin sia stato tutt’altro che avaro di scritti e teorie.
Il Partito, avanguardia della Rivoluzione
Di tutte le idee di Lenin, quella che ha avuto più successo pratico è stata senza dubbio il Partito. L’impiego della maiuscola non è casuale, né ridondante. Quello pensato e realizzato da Lenin è stato proprio il partito dei partiti, il prototipo, la matrice della formazione politica dominante in Europa a cavallo tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento.
L’avanguardia del proletariato, la riserva dei rivoluzionari (perlomeno, negli auspici) o, più prosaicamente, dei politici di professione (nella realtà): il partito di Lenin è la leva attraverso cui azionare la lotta di classe al livello più alto, quello della presa del potere. Ovviamente, il Partito dev’essere l’unico ammesso nello Stato proletario e contadino e, dal punto di vista della sua vita interna, dev’essere un monolite. È la regola del sedicente “centralismo democratico”: dialettica interna (più o meno) ammessa, ma poi, una volta presa la decisione, anche i dirigenti precedentemente in dissenso devono, pubblicamente, assumere e difendere la linea adottata senza esitazioni, né tanto meno cedimenti. La disciplina comunista si è illustrata – nel bene e soprattutto nel male – anche fuori dai confini russi e sovietici, al punto da costituire uno dei tratti distintivi tipici dei “compagni” in tutto il mondo.
Lo Stato repressivo
Nell’ottica di Lenin, lo Stato ha natura schiettamente strumentale. Non solo perché finisce per essere pressoché totalmente confuso con il mono-partito e assorbito da quest’ultimo. Ma anche perché il suo destino è quello di diventare superfluo, una volta sorto il “sol dell’avvenire”, vale a dire radicatasi la società comunista, caratterizzata dalla completa emancipazione culturale ed economico-sociale dei lavoratori.
Dal punto di vista amministrativo, lo Stato che Lenin ha effettivamente fondato, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (1922), era una compagine federale (domandare a Putin, fiero propugnatore dell’imperialismo russo, cosa ne pensa). Dal punto di vista istituzionale, oltre la dittatura del mono-partito, i riferimenti cui ispirarsi erano quelli comunardi del 1870-1871 (esercito popolare) e consiliari (appunto, dei soviet operai e contadini, presenti in Russia sin dalla prima rivoluzione del 1905). Caratteristica assolutamente decisiva dello Stato leninista è la sua funzione violenta e repressiva. Siccome è uno strumento della lotta classista, non è concepibile che lo Stato non discrimini i nemici del proletariato: vessandoli, deprivandoli di diritti e beni, sopprimendoli anche su vasta scala.
Lotta a imperialismo e bellicismo
Enorme fortuna ha avuto anche l’idea di Lenin dell’imperialismo come fase suprema del capitalismo (è il titolo di una sua celebre opera). Terminato il soggiogamento della classe operaia nei Paesi economicamente avanzati, il capitale avrebbe spostato le sue mire predatorie verso i Paesi svantaggiati. Ricorrendo al neo-colonialismo e alla guerra su scala generale, le classi dominanti riescono anche a dividere gli oppressi, facendoli combattere e uccidere reciprocamente sotto vessilli opposti.
Non bisogna dimenticare che la pace di Brest-Litovsk (1918), conclusa dalla Russia bolscevica con gli Imperi centrali, non ha rappresentato solo una necessità per i rivoluzionari, impegnati fino al collo nella guerra civile: voleva essere, nelle intenzioni di Lenin, anche la prova della dissociazione del nuovo Stato comunista dalla guerra imperialista. Certo, alla luce della resa russa, il favore e l’attivismo tedeschi per il rientro in patria dell’esiliato Ul’janov sono apparsi tutto fuorché disinteressati.
Stalin e Putin si discostano da Lenin, ma…
Potremmo parlare di altro. Ad esempio, di come la salute rapidamente declinante di Lenin (negli ultimi 18 mesi di vita, almeno tre ictus e conseguenti paralisi, con perdita progressiva di mobilità, parola e lucidità) gli abbia impedito di contrastare efficacemente la successione di Stalin. Il quale, tra l’altro, oltre a deviare significativamente da alcuni caposaldi leninisti – l’incitamento alla rivoluzione mondiale, l’antimilitarismo, un certo rispetto della collegialità direttiva – ha finito, anche sotto il peso del mito della guerra patriottica contro l’invasione hitleriana del 1941, per assicurare continuità addirittura all’imperialismo e al centralismo russi. Non è un caso che, pur rispettando il capo della Rivoluzione d’Ottobre, Vladimir Putin non gli lesini critiche e ammiri di più il generalmente esecrato Stalin.
La politica, cioè la condotta di Lenin non è stata esente da crimini e crudeltà. Ci ricorda, però, la schiacciante esigenza del realismo politico: si può – e si deve, aggiungiamo noi – preferire la via del consenso, ma un certo ricorso alla forza è inevitabile anche ai democratici e rispettosi del diritto, nel processo storico.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.