Su Marchionne sono già stati versati fiumi d’inchiostro nel bene e nel male. Ma nel rispetto del dramma che sta vivendo la sua famiglia, ci sembra comunque opportuno dire due parole fuori dal coro per fare un po’ di chiarezza sulla sua figura.
Da Torino a Detroit
Le critiche che gli sono cadute addosso negli anni sono fondate. È vero che l’ex top manager di Fca ha spostato il baricentro dell’auto italiana da Torino a Detroit. È vero che ha limitato i diritti dei lavoratori, che ha licenziato, delocalizzato, spostato la sede dell’azienda all’estero al solo scopo di pagare meno tasse. Tutte osservazioni legittime.
Ma chi in questi anni lo ha criticato ha forse confuso la sua figura con quella di un politico. Cosa che non è mai stato né ambiva essere. Marchionne era italiano come Obama è keniota e Trump scozzese, per puro caso. E credo non si sia mai sentito “solo” italiano ma cittadino del mondo. Dunque, rimproverarlo di aver “danneggiato” l’Italia ci sembra quantomeno privo di senso.
Privatizzare i profitti, socializzare le perdite
Sergio Marchionne ha lavorato una vita come manager privato. Un personaggio che di mestiere fa affari e guadagna (tanto) se vanno bene. È stato assunto da una impresa italiana (la Fiat) in quel momento alla canna del gas, nonostante decenni di aiuti pubblici. È noto l’aforisma col quale veniva ricordato Gianni Agnelli, “privatizzare i profitti, socializzare le perdite”. E l’Avvocato – benché ancor oggi in odore di santità – ha sfruttato il sistema Italia più di Marchionne.
Lo ripetiamo: Marchionne era stato assunto non per fare del bene all’Italia, ma per fare i profitti della famiglia Agnelli. E se avesse fatto il contrario, lasciando, per esempio, la sede della Fiat a Torino, avrebbe probabilmente ricevuto una lettera di benservito. La sua “mission” era chiara. La Fiat avrebbe dovuto prima continuare ad esistere, cosa non pacifica quando ne aveva preso il timone. E poi fare utili. Punto. Il modo lo doveva trovare lui.
Mettiamoci il maglione
La colpa di quanto è accaduto nel rapporto con il nostro Paese non è certamente sua. Ma di una classe politica che nei 14 anni dell’era Marchionne e nei 50 precedenti ha fatto di tutto per rendere l’ambiente irrespirabile per qualunque impresa degna di questo nome.
Mettiamoci il famoso maglione dell’ex ceo di Fiat Chrysler: quanti di noi, se solo ne avessero la possibilità, non sceglierebbe di vivere in Italia, a casa propria, ma di pagare le tasse in Svizzera, come Marchionne, o in Olanda, come la Fca, o alle Antille, anche per guadagnare un 1% in più?
Marchionne, impresa ed etica
Oppure, e qui ci servirebbe la laurea in filosofia di Marchionne, si dovrebbe spostare il discorso sull’etica: qualunque manager, qualunque cittadino, qualunque impresa che opera sul territorio italiano deve prima di tutto pensare al bene della collettività, al vantaggio comune.
Ma anche sotto questo profilo appare difficile condannare Marchionne. Se la Fiat fosse rimasta tutta in Italia, se avesse – come da italiani ci sarebbe piaciuto – aumentato le fabbriche qui, assunto più maestranze, aumentato le linee di produzione e poi, condannata dall’eccessivo costo del lavoro, fosse crollata?
Business is business
Il suo carattere ruvido, la sua aria quasi perennemente imbronciata, le sue dichiarazioni tranchant non ne hanno fatto un personaggio simpatico. Ma non li sono stati neppure Valletta o Romiti. Il ruolo di Marchionne non era quello di essere osannato dalle folle, ma più semplicemente di riempire la borsa di chi gli aveva dato quell’incarico. Se si fosse comportato diversamente avrebbe tradito il suo ruolo e non avrebbe avuto successo. Che piaccia o no, facciamocene tutti una ragione.
Massimo Solari è avvocato cassazionista e scrittore. Ha pubblicato diversi volumi sulla storia di Piacenza e alcuni romanzi. Ha tenuto conferenze e convegni sulla storia di Piacenza. Ha collaborato con le riviste Panoramamusei, L'Urtiga, e scrive sul quotidiano Italia Oggi.
Ottimo realistico e chiaro articolo
Grazie Mirella, continui a seguirci!