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Meloni e Nordio: il gioco delle parti sulla giustizia mostra la corda

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Giorgia Meloni e Carlo Nordio: tra la presidente del Consiglio e il suo ministro della Giustizia, i nodi dovrebbero venire presto al pettine. Il condizionale è d’obbligo, nella politica in generale e in quella nazionale in particolare. Dipende, infatti, da quale idea di politica si ha in mente e si tiene sullo sfondo.

Se fosse l’accudimento della res publica, cioè dell’interesse generale, non si potrebbe dubitare che tra palazzo Chigi e via Arenula una messa a punto sia imminente, per quanto con un ritardo già deprecabile. Se, invece, la politica dovesse essere un’arte fine a se stessa, rigorosamente riservata a specialisti, diligentemente intenti a perpetuare il proprio personale ruolo nonostante tutto, allora gli equivoci sarebbero destinati a continuare.

I nodi da sciogliere

I fraintendimenti in essere, in materia di politica governativa della giustizia, sono tre. Prima di tutto, c’è un’apparente incomprensione personale tra Meloni e Nordio. Quasi che la candidatura parlamentare dell’ex pubblico ministero veneto da parte di Fratelli d’Italia alle ultime elezioni sapesse di una mossa prevalentemente propagandistica; una mossa volta ad accreditare la formazione di remota ascendenza missina di una matrice garantista liberale, alla quale era sostanzialmente estranea.

Ci sono, quindi, le sempre più frequenti scaramucce tra i partiti della maggioranza, divenute quasi quotidiane tra FdI e Lega. Anche le questioni relative alla giustizia vengono impugnate e brandite all’interno di questo gioco assai poco divertente.

C’è, finalmente, il merito dei problemi di sistema. Vogliamo un processo penale veramente accusatorio, oppure continuiamo a mantenere (barcamenandoci senza ammetterlo) il solito processo inquisitorio? Il ruolo dei magistrati deve restare unico, ovvero bisogna separare nettamente giudici e pubblici accusatori, di modo che entrambe le funzioni non possano mai essere svolte dalla stessa persona? Soprattutto: quello Giudiziario è un potere attuatore, o invece è un potere anch’esso decisore, al pari del Legislativo e dell’Esecutivo?

Quel che non basta

Il rapporto Meloni-Nordio è particolare sotto diversi punti di vista. Anzitutto, parliamo di una presidente del Consiglio di 46 anni e un Guardasigilli di 76: il collaboratore potrebbe essere il padre del suo capo. Né si deve dimenticare l’elevata specializzazione tecnica di Nordio, che ha alle spalle 40 anni da magistrato e un significativo impegno nella pubblicistica di settore. Laddove, invece, Meloni, pur con il suo encomiabile ed universalmente riconosciuto impegno di preparazione, non si è occupata di giustizia più che di qualsiasi altro tema rilevante di governo.

C’è, soprattutto, la questione dell’orientamento di fondo di Meloni e FdI da una parte e Nordio dall’altra. Il fatto che entrambi ritengano la sinistra la maggiore responsabile del collateralismo politico all’esorbitanza della funzione giudiziaria negli ultimi 40 anni non basta per farli remare esattamente nella stessa direzione. Può essere che la pensino diversamente su altri aspetti importanti e, più in generale, sull’attitudine complessiva nei confronti del pianeta-giustizia. Nordio è un liberale garantista; Meloni è una leader di destra affezionata a legge, ordine e primato delle istituzioni. Il presidente del Consiglio avrà pure anticipato Forza Italia, l’anno scorso, offrendo la candidatura a Nordio; ma alla lunga emerge comunque la maggiore consonanza tra il Guardasigilli e il partito fondato da Silvio Berlusconi.

Propaganda  per le Europee

Una parola va detta sulle scaramucce tra i partiti di maggioranza in vista delle elezioni europee del 2024. Si tratta di elezioni solo apparentemente continentali, mentre in realtà sono nient’altro che gare di consenso interno ai diversi Paesi dell’Unione. Prova ne sia il fatto che l’elezione dei componenti dell’assemblea di Strasburgo avviene su base strettamente nazionale e con formula elettorale puramente proporzionale.

Come da infelice tradizione, in Italia, alla purezza della formula proporzionale corrispondono numerose sconcezze della deteriore politica: stillicidi di dichiarazioni, distinguo e controcanto; azioni più o meno deliberate e concertate di logoramento; rincorsa a spararle sempre più grosse. La ricerca di visibilità della Lega e del suo leader, il vicepresidente del Consiglio e ministro Matteo Salvini, sta tornando ad attingere la non invidiabile soglia di ossessione delle scorse Europee del 2019, quelle in cui il Carroccio aveva riportato il 34 % dei suffragi. In generale, i partiti, in occasione delle Europee, puntano tutto sulla maggiore facilità di concessione del voto nel caso di un’elezione largamente finta e, comunque, percepita come lontana.

Riforma e maquillage

Restano le questioni di sistema. Ne avevamo anticipate tre, a parere nostro tutte evidenziate dalle più accese polemiche politiche d’attualità. L’imputazione coatta (decisa, ad esempio, da un Gip di Roma a carico del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro) non è altro che l’indizio della perdurante natura inquisitoria del sistema processuale penale italiano, nonostante il codice Vassalli del 1989 e la riforma costituzionale del giusto processo del 1999. In un vero sistema accusatorio, l’accusa è questione della parte omonima, il giudice garantisce la legalità del procedimento e determina l’entità della pena, mentre la giuria giudica la responsabilità degli imputati. Una facoltà quale ordinare l’imputazione, riconosciuta al giudice, fa pensare al vecchio magistrato istruttore, non a quello che si vorrebbe fosse l’attuale giudice per le indagini preliminari.

Le altre due questioni dibattute, cioè la separazione del ruolo (la carriera) di giudici e pm e la natura di potere della Magistratura (attuazione o co-decisione), sono addirittura alla base degli ultimi 45 anni della vita pubblica italiana. Carlo Nordio, in ragione della sua pluridecennale esperienza di magistrato del pubblico ministero, non è forse la persona più adatta per riequilibrare il sistema, oggi sbilanciato nel senso dell’ipertrofia del potere Giudiziario. Giorgia Meloni gode di un rilevante sostegno popolare, ma è pur sempre soggetta al condizionamento proprio dei governi di coalizione. In più, anche gli esponenti del suo movimento hanno cavalcato in passato l’azione di supplenza della magistratura nei confronti della politica, in nome di un controverso concetto di legalità.

Il rischio che la montagna della riforma della giustizia partorisca il topolino di pochi interventi settoriali e di dettaglio c’è. L’ulteriore perdurare di una specie di gioco delle parti tra il presidente del Consiglio e il ministro della Giustizia costituirebbe, purtroppo, un pesante indizio in tal senso.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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