Mes: la maggioranza di centrodestra della premier Giorgia Meloni ha praticato giovedì scorso, in Commissione esteri alla Camera, una singolare forma di auto-ostruzionismo (diserzione della seduta) sulla proposta di legge di ratifica del trattato istituivo del Meccanismo europeo di stabilità. D’altra parte, pochi giorni fa, la Direzione nazionale del Pd ha approvato una sintesi, ma non l’intera relazione del segretario Elly Schlein, perché quest’ultima non era ampiamente (o, addirittura, sufficientemente) condivisa.
Siamo di fronte, all’evidenza, a due iperboli nazionali della democrazia che non decide. Eppure, a sentire diversi esponenti non solo politici, ma anche del mondo della dottrina giuridica, della cultura e del giornalismo, il nostro regime (altro nome della nostra Costituzione) sarebbe “il più bello del mondo”. A noi sembra, invece, che l’Italia tenti paradossalmente di non perdere la gara d’inseguimento allo sfaldamento dei sistemi politici. Sì, perché mentre ovunque, in Occidente, sistemi tradizionalmente più efficienti del nostro danno segni di logoramento, noi diamo un colpo di reni, quasi a ribadire: la “vittoria” nel campionato della paralisi dev’essere nostra!
Considereremo distintamente i due casi ai quali abbiamo accennato, perché sono molto diversi. Non perderemo di vista però lo scopo della nostra riflessione, che, come sempre, è di ordine più generale.
Il Mes del 2012 e del 2021
La vicenda del Mes è in ballo da oltre un decennio. La sua concezione risale alla crisi speculativa del 2011, che ha minacciato di arrecare seri pregiudizi anche al nostro debito sovrano. La finalità dell’istituzione è assicurare assistenza finanziaria agli Stati membri della Ue che, pur solvibili, incontrino temporanee difficoltà sui mercati. Questione centrale è quella delle condizionalità, cioè cosa devono impegnarsi a fare gli Stati che decidano di ricorrere a questa forma di sostegno.
Nel 2021, il trattato istituivo del Mes (ratificato dall’Italia nel 2012) è stato emendato, in virtù di un’intesa sottoscritta anche da noi. Il nostro Paese è, però, tuttora l’unico moroso della ratifica della nuova versione. La ritrosia italiana, politicamente parlando, viene per lo più da destra (Lega) e Movimento 5 Stelle. Fratelli d’Italia, partito dell’attuale presidente del Consiglio, sin dai tempi dell’opposizione al secondo governo Conte e al governo Draghi di unità nazionale, aveva categoricamente escluso la propria disponibilità a dare corso al nuovo Mes. Ora per Giorgia Meloni le cose sono più complicate.
Tra propaganda e realtà
A dare retta alla maggioranza, la perdurante inadempienza italiana alla ratifica andrebbe letta in chiave negoziale. Dovremmo (e staremmo cercando di) fare pesare il nostro adempimento, spuntando condizioni per noi più favorevoli in altre partite, distinte per quanto variamente collegate con questa.
A detta delle opposizioni, il governo Meloni e la maggioranza che lo sostiene starebbero inscenando un diversivo per l’opinione pubblica. Dopo avere categoricamente escluso, in passato e in parte dall’opposizione, il sì al Mes, ora, per il centrodestra al governo, si tratterà di ratificarlo comunque. Si cercherebbe soltanto di drammatizzare e dilazionare la cosa. Il problema è che questo reiterato rinvio rischia di nuocerci, sia in termini di credibilità sui mercati, sia nei rapporti con i partner e le istituzioni europee.
La verità, come sempre, sta a metà strada tra le due interpretazioni. Mentre, però, per la verità il giusto mezzo è la naturale collocazione, per un Paese la metà del guado è una posizione assai scomoda. Se non vuole il Mes, il governo deve avere il coraggio di dirlo e, soprattutto, la capacità di sopportare le conseguenze (interne ed internazionali) del rigetto della sua ratifica.
L’irresolutezza del Pd
Di tutt’altro rilievo la questione, meramente politica e tutta interna al Pd, del rapporto tra Elly Schlein e il partito del quale è diventata segretario nel marzo scorso. Qui l’equivoco è a monte, cioè nelle contraddizioni di principio dentro le quali il partito è stato concepito nel 2007 e nelle modalità insensate di designazione della sua leadership.
Il Pd non ha mai definito la propria identità. Partito laburista, vale a dire, oggi, liberal-democratico? Partito tardo socialista? Ovvero, partito radicale di massa? E poi: in tutte queste possibili varianti, che spazio ha (ammesso che ne abbia) la componente cattolico-popolare, che è pur sempre una delle due matrici originarie dell’impresa? La questione delle alleanze (il “campo largo”), cioè la vocazione maggioritaria del Pd, per quanto significativa, non può che seguire la definizione – ancora irrisolta – della questione identitaria.
Fronde e dissensi
Anche la designazione, a dir poco farraginosa, del leader mediante le cosiddette primarie, non è che un riflesso dell’irresolutezza di principio e di principi del partito. L’elezione di Schlein ha reso impossibili i consueti, falsi pudori. Gli iscritti al Pd, cioè gli unici ragionevolmente titolati a designarne il segretario, avevano scelto nei congressi l’avversario di Elly, il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Il voto aperto a tutti, invece, ha issato a Largo del Nazareno una signora che ha ripreso la tessera solo dopo avere posto candidatura alla Segreteria!
Sicché, agli esordi del suo mandato, Schlein è già alle prese con fronde e dissensi aperti, al punto che la sua ricognizione della situazione politica (la relazione presentata in Direzione) non è stata sottoposta al voto dell’assise nazionale. Vi immaginate Togliatti e Berlinguer che non facevano deliberare il Comitato centrale del Pci, ignorando come sarebbe andata a finire? Il paragone è volutamente provocatorio nella sua improponibilità storica, ma serve comunque a farsi un’idea.
Guardiamoci allo specchio…
La considerazione di ordine generale, ispirataci dai due episodi, Mes e Pd, è che noi italiani non vogliamo essere governati. Non è qualunquismo, è storica presa d’atto: che l’avesse fatta, a suo tempo, anche il Duce non fa differenza, l’importante è il tipo di risposta che le si dà. Il fascismo ha dato la sua, sbagliata e tragica, che sappiamo. I costituenti ne hanno tratto l’equivoca lezione del “potere diffuso”: tutti necessari e nessuno indispensabile, uno a te e uno a me, oggi a te e domani a me…
Quanti hanno fatto per lo più finta di provare a riscrivere le regole, secondo noi hanno mancato di credibilità. La questione dell’assunzione di responsabilità e della decisione è la pre-condizione di qualsiasi contenuto di merito politico. Non potrebbe stare col giusto spirito nelle istituzioni e nemmeno nelle forze politiche chi non pretendesse, senza subordinate, che il loro assetto decisionale sia chiaro e netto. È vero, però, che il primo passo spetta a noi, italiane e italiani: se il cambiamento non cominciasse da noi stessi, non potrebbe farsi realmente strada.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.