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Pd: partito o movimento? La crisi d’identità è sempre più profonda

Da sinistra, Marco Minniti e Matteo Renzi

Pd in preda al caos e all’improvvisazione. Minniti abbandona la corsa alla segreteria prima di cominciarla. E Renzi gioca sullo sfondo una partita ancora non del tutto chiara. Impossibile ignorare la stretta correlazione tra le due circostanze, ammessa implicitamente dall’ex titolare del Viminale. Con l’intervista a La Repubblica di giovedì, Marco Minniti getta la spugna e denuncia la mancanza di affetto del Fiorentino verso il partito. Evidentemente, però, anch’egli lamenta di essere stato trascurato dall’ex premier. Strano, perché aveva speso le scorse settimane a fugare il sospetto di essere il candidato di Matteo Renzi.

La strada delle primarie adesso è spianata per Nicola Zingaretti? Oppure i renziani tenteranno una candidatura in extremis? E Renzi farà il suo movimento alla Macron, cui aspira congiungersi in Europa? Oppure si presenterà ancora alle primarie, come da rumors incontrollati delle ultime ore?
Spiacenti, ma i problemi ci sembrano tutt’altro che questi.

Paura degli iscritti

La motivazione principale del ritiro di Minniti è il timore che nessuno dei candidati ottenga il 51% nei gazebo. In quel caso, la designazione del segretario verrebbe deferita all’assemblea nazionale, con un ballottaggio tra i due candidati più votati alle primarie. E questo, dice Minniti ma non solo lui, sarebbe alquanto pregiudizievole per il Pd, perché darebbe l’idea di un partito delle tessere anziché degli elettori.

Seguendo questo ragionamento, bisognerebbe allora: mantenere le primarie, avere 2 soli candidati, lasciare immutato lo statuto, restare un partito e sembrare un movimento d’opinione. Non si può avere tutto dalla vita, è un concetto così difficile da capire? Eppure, l’ininterrotta serie di sconfitte riportate dal Pd da 4 anni a questa parte dovrebbe averlo insegnato. Se le regole prevedono la possibilità di un secondo tempo in un’assise congressuale, o si cambia lo statuto che lo prevede o lo si applica. Terze vie purtroppo si possono imboccare, ma non portano a nulla.

Se il Pd detesta se stesso

Soprattutto, però, non si capisce come faccia a riuscire molesta a un partito l’elezione del proprio segretario tramite i delegati. I partiti, da quando esistono e dove resistono, funzionano così. La Spd tedesca ha provveduto a eleggere il proprio presidente lo scorso aprile a Wiesbaden, la Cdu della Merkel lo fa in questi giorni ad Amburgo. Solo per parlare della locomotiva d’Europa. Il partito è il luogo politico per eccellenza dell’intermediazione. Cerca di farne valere il meccanismo nelle dinamiche istituzionali con le altre forze politiche e sociali, figuriamoci al proprio interno.

Se è un vero partito, il Pd non può prescindere da quote di decisioni assunte dai delegati delle proprie articolazioni territoriali. Per cui, la modifica dello statuto ipotizzabile dovrebbe andare nel senso di rendere comunque indispensabile il passaggio dell’assemblea per l’investitura del segretario. Invece, si dice che correre il rischio che le primarie non incoronino un vincitore non sarebbe consentito. D’altra parte, non era probabilmente lecito aspettarsi di più da un partito che ammette alla designazione della propria leadership anche dei non-iscritti. Quest’ossimoro la diceva già lunga sulla crisi d’identità della principale formazione della sinistra italiana.

Errori e attendismo

Minniti esce piuttosto male da questa vicenda. Il sospetto che Renzi tentasse la via di una scissione (strisciante più che formale) lo poteva nutrire anche prima. Forse ha temuto di essere lui il più votato alle primarie (sotto il 51%) e poi il secondo in assemblea nazionale. Non si può dargli ragione quando dice di fare il bene del partito ritirandosi. Perché, se anche fosse vero, il vantaggio sarebbe ampiamente compensato dalla lezione diseducativa impartita, screditando il ruolo d’intermediazione dei delegati. Minniti farebbe meglio a chiarire se secondo lui serva ancora o no al Pd essere un partito. Chiarito questo, se partito dovesse essere, come abbiamo visto l’intermediazione non potrebbe che costituirne parte integrante.

Renzi non è da meno quanto alle responsabilità che porta, anche perché è già stato segretario del Pd. Il partito gli è sempre stato stretto, a parte quando conquistarlo servì da trampolino per palazzo Chigi. Dal suo interno gli è spesso stata fatta la guerra, ma lui l’ha sempre considerata una battaglia di retroguardia. Allora, perché non uscirne? Perché non si sa mai che l’idea di partito e questo partito in particolare non siano del tutto morti. Meglio aspettare. 

Cercasi carisma

In conclusione, merita un accenno una delle alternative principali alla forma-partito, cioè il movimento carismatico. L’altra, il movimento dal basso (e dalla rete), è rappresentato per ora solo dai 5 Stelle.
Il carisma del capo può essere di due specie. O è legato a qualcosa che ha fatto in passato, ovvero a qualcosa che si propone di fare in futuro. In entrambi i casi, dev’essere qualcosa di rilevante. Per un Pd ancora così male in arnese, già decidersi una volta per tutte tra il partito e un’altra forma di aggregazione potrebbe bastare a legittimarne la leadership.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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