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Putin agita l’incubo della guerra nucleare: che cosa c’è di vero?

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Putin agita il fantasma dell’olocausto nucleare. Già lo scorso febbraio, accenti preoccupati al riguardo arrivavano dal Bulletin of the Atomic Scientists. Gli esperti del settore istituivano un sinistro paragone di prossimità allo scoppio di un conflitto nucleare tra i giorni nostri e il 1953, al tempo della guerra di Corea.

Ma quando a evocare uno scenario tanto catastrofico è uno dei principali responsabili delle decisioni che potrebbero determinarlo, si può capire come la preoccupazione aumenti. Partiamo allora dalle parole pronunciate dal presidente russo nella conferenza stampa di fine anno. E vediamo in quale trama internazionale si inseriscono.

Putin boccia Trump sull’atomica

Il capo del Cremlino addita nel contenuto della “Nuclear Posture Review”, presentata mesi fa dall’Amministrazione americana, la causa del rinnovo dell’incubo nucleare. Putin contesta radicalmente il caposaldo di quel documento. Il ritorno alle atomiche tattiche di teatro e ai missili da crociera sottomarini (con armamento convenzionale e non) viene bocciato perché abbassa la soglia d’uso dell’arma nucleare. Tende a sottrarla dall’ambito tradizionale della deterrenza per attrarla in quello fortunatamente sin qui inesplorato dell’impiego bellico.

Putin reagisce anche alla denuncia unilaterale statunitense del trattato Inf del 1987, concluso da Reagan e Gorbaciov. L’intesa pose fine al dislocamento dei missili nucleari a raggio intermedio in Europa. Donald Trump se ne è dichiarato svincolato attribuendone però la responsabilità alla Russia, accusandola di aver violato per prima l’accordo. E lasciando intendere che il trattato è superato dall’avvento della Cina (che non l’ha stipulato) tra le grandi potenze. Insomma, il presidente americano sarebbe mosso dalla necessità di reagire anche contro un altro nemico. Ma lo zar non si fida. Teme forse di essersi illuso, puntando sul feeling personale con The Donald. E conferma di essere infastidito dalla russofobia che giudica imperante tra i Paesi occidentali.

Il rientro delle truppe Usa

Nel frattempo, in apparente contraddizione con i timori espressi da Putin, Trump gli fa spazio in teatri cruciali. Il presidente Usa, vantandosi di aver contribuito alla rotta di Isis e talebani, ha preannunciato il ritiro degli statunitensi dalla Siria e il dimezzamento del loro contingente in Afghanistan. All’insegna dello slogan “America first”, The Donald sembra intenzionato a rimodellare la politica estera del suo Paese. O, quantomeno, a farlo credere allo zoccolo duro del proprio elettorato, che non disdegna un’America ripiegata su se stessa e sui suoi problemi interni.

La decisione prelude a una recrudescenza del rischio per i valorosi combattenti curdi del nord-est siriano. La scure turca di Erdogan potrebbe abbattersi presto su di loro. D’altra parte però le rassicurazioni americane sulla permanenza in Siria (con servizi più che altro ausiliari) non sono mai state convincenti. La realtà è che già Barack Obama aveva rifiutato un impegno su vasta scala nel ginepraio di Damasco. Arrivò a compromettere la propria credibilità, tracciando un’ideale deadline per l’intervento contro Assad salvo poi soprassedere. Figuriamoci se può essere Trump a formalizzarsi.

Mattis: addio al Pentagono

Intanto le porte girevoli che The Donald si è portato a Washington dalla sua torre di New York hanno ripreso a buttar fuori pezzi da 90 del governo. Il prossimo abbandono di James Mattis, il segretario alla Difesa, non può essere derubricato a capriccio presidenziale. Anche perché il capo uscente del Pentagono ha rivendicato l’iniziativa delle dimissioni e l’ha collegata direttamente alla strategia di disimpegno decisa dal presidente di cui è un fiero avversario.

Una sveglia per l’Europa

Tornando a Putin, in conclusione, probabilmente le sue parole a tinte fosche non vanno prese alla lettera. Ma il monito del presidente russo coglie comunque nel segno di entrambi i suoi interlocutori, cioè Stati Uniti e Unione Europea.

A Washington, l’ex ufficiale del Kgb ricorda che la Guerra fredda è finita per dissoluzione di uno dei due contendenti, non a causa della sua sconfitta sul campo. L’attrazione di tutti i satelliti del disciolto Patto di Varsavia nell’orbita della Nato sconta l’ostilità irriducibile della Russia. Mosca pretende di mantenere attorno a sé una zona di rispetto, se non di influenza.

All’Europa, le parole del capo del Cremlino suggeriscono l’urgenza d’integrare tra i Paesi maggiori la difesa e le spese militari. Se il Regno Unito dovesse confermare la Brexit, Germania e Italia dovrebbero archiviare i fantasmi nazi-fascisti. E la Francia rinunciare al sussiego di un’autonoma force de frappe, oggi ridotta a mera formalità.

Come l’empirismo di Hume diede a Kant lo svegliarino dal sonno dogmatico, il glaciale realismo di Putin sprona l’Europa ad accudire la propria sicurezza: Washington adesso se ne cura molto meno.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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