Stati Uniti in fiamme, dopo la brutale aggressione di polizia costata la vita a Minneapolis al cittadino di colore George Floyd. Il terribile fatto di cronaca del 25 maggio ha dato il via in tutto il Paese ad un’ondata di manifestazioni e sedizioni con pochi precedenti. E questo nonostante gli States non siano purtroppo nuovi ad episodi di chiara marca razzista, con protagoniste le forze dell’ordine.
La tragedia individuale, però, incrocia le vicende collettive e le circostanze che fanno la storia in 3 punti. Il primo è il perdurante pregiudizio razziale in danno degli afroamericani, che incredibilmente sopravvive ancora nel XXI secolo. Il secondo è la convivenza democratica col dissenso e le sue manifestazioni più eclatanti (e finanche inaccettabili), proprio durante una polemica internazionale serrata con la Cina, avversaria per l’egemonia globale. Il terzo è la difficoltà inaspettata di Donald Trump nell’anno della corsa alla rielezione alla Casa Bianca.
Una storica maledizione
Gli Usa sono un Paese non solo colossale (per dimensioni, popolazione, risorse, progresso, e così via), ma anche esagerato. Sono la patria degli eccessi e questo vale anche per i difetti: pure questi ultimi sono relativamente spropositati. Come giudicare altrimenti che l’America nel 2020 abbia ancora all’ordine del giorno una questione razziale? Le cose, ovviamente, sono più complicate. Sappiamo, infatti, che lo schiavismo affonda le radici nelle origini e nell’intera storia della giovane nazione nordamericana. Neanche l’elezione a presidente di Barack Obama (2009), dopo 50 anni di lotte per la parità dei diritti, è riuscita ad estinguere questa pesante ipoteca sulla credibilità della leadership morale americana.
La situazione sul campo, per tornare alla cronaca, sembra stia lentamente virando in senso positivo, dopo giornate estremamente difficili. Per quanto riguarda il caso Floyd, la procura generale del Minnesota ha disposto l’arresto degli altri tre poliziotti coinvolti nella sciagurata operazione. E ha elevato l’accusa nei confronti del responsabile del soffocamento, l’agente Derek Chauvin, da omicidio colposo a volontario. In generale, la situazione nel Paese resta complessa. Il coprifuoco vige nelle ore notturne in molte metropoli e il suo mancato rispetto produce ancora scontri tra polizia e manifestanti. I saccheggi e le devastazioni, che (probabilmente causa infiltrazioni di estremisti di ogni tendenza politica) hanno accompagnato gli esordi della protesta, stanno finalmente cessando. Nondimeno, la calma e la sicurezza sono lungi dall’essere ovunque pienamente ristabilite.
Veri governatori
Veniamo al secondo aspetto critico, relativo alla convivenza della democrazia americana con le tensioni e il dissenso. Anche qui viene in questione la complessità della realtà statunitense, anzitutto dal punto di vista dell’articolazione istituzionale. Gli Usa sono uno Stato federale, risultano cioè composti da una pluralità di Stati. In essi, a differenza di qui, ci sono per davvero i governatori: capi del potere esecutivo, sono largamente “presidenti” entro i propri confini. In fatto di ordine pubblico, godono di sostanziali poteri (unitamente ai sindaci) e dispongono altresì della Guardia Nazionale. Il governo federale non può sostanzialmente ingerirsi in questioni di sicurezza interna. Le minacce in tal senso di Donald Trump in questi giorni difficili sono state per lo più snobbate e derubricate a necessità d’immagine della campagna presidenziale di novembre.
La Cina ribalta le accuse
Non le ha invece snobbate, insieme alle immagini dei saccheggi e degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, la Cina. A Pechino non è parso vero di poter girare a proprio vantaggio una simile grana interna statunitense, in modo da oscurare la questione Hong Kong. O almeno approfittarne per additare i due pesi e le due misure statunitensi. Inflessibili col Celeste Impero che cerca di non perdere la sua integrale sovranità, gli Usa reprimono duramente le proteste interne. Queste ultime poi, essendo originate dal perdurare della questione razziale, attestano in modo eclatante l’indegnità morale dell’America ad ergersi a paladina del mondo libero e giusto. Non è in discussione la strumentalità di simili ricostruzioni. Ma non si può negare che le ultime due settimane di proteste e tumulti abbiano evidenziato molte delle gravi contraddizioni interne americane.
I travagli di Trump
E concludiamo con il presidente Donald Trump. La sua posizione si è improvvisamente deteriorata, proprio a pochi mesi dalle presidenziali. All’inizio dell’anno poteva vantare condizioni economiche nazionali particolarmente floride. Talmente rosee da fargli sperare che restassero in ombra risultati almeno controversi in politica estera. La pandemia di Covid-19, con gli Usa primo Paese per numero di contagiati, ha terremotato l’economia a stelle e strisce. È vero che in queste ore il dato della disoccupazione ha riservato una boccata d’ossigeno al tycoon: si è ridotta al 13,3 % in maggio, rispetto al 14,7 di aprile. Ma il numero dei senza lavoro è comunque piuttosto elevato (21 milioni) e bisognerà vedere se quest’ultima inversione di tendenza verrà confermata. Ci mancava solo il divampare in forma di rivolta sociale della sempre latente questione razziale.
In rotta con gli ex collaboratori scaricati (da ultimo l’ex capo del Pentagono Jim Mattis), in lotta perfino con l’amato Twitter che lo censura in chiave anti-fake, adesso Trump viene corretto anche da attuali membri dell’amministrazione. Come il segretario alla Difesa Mark Esper, che ha escluso che l’esercito possa essere impiegato a presidio dell’ordine pubblico, come paventato dal presidente mentre infuriavano le sedizioni partite da Minneapolis. Nondimeno, è il rischio boomerang nella lotta contro Pechino a preoccupare non solo il presidente, ma il sistema-paese nel suo complesso. Contro ogni previsione, la Cina, da cui proviene il Covid, sembra abbastanza in forma, al punto da rispedire al mittente americano l’accusa di usare le maniere forti negli affari interni.
Il peso di Obama
La sfida di Trump con Joe Biden è alle porte e l’impegno dei Democratici sarà massimo. Ne è prova il prevedibile intervento in questi giorni di Barack Obama. L’ex presidente appoggia le rivendicazioni anti-razziste sul caso Floyd, condanna i saccheggi, ma soprattutto ricorda ai suoi che la via maestra per cambiare le cose è il voto. Il tycoon, comunque, venderà cara la pelle e, se l’economia tornerà minimamente in positivo, potrà risalire la china. Per adesso è dato indietro di 10 punti: di qui al “Super Tuesday” del 3 novembre, si vedrà.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.