Donald Trump ha concluso il suo mega tour in Estremo Oriente. 12 giorni attraverso Giappone, Corea del Sud, Cina, Vietnam e Filippine. Due fugaci incroci con Vladimir Putin e le scaramucce a distanza con Kim Jong-un hanno ravvivato l’interesse per il viaggio. Pur sapendo che occasioni così dispersive difficilmente si rivelano anche produttive, conviene domandarsi come ne escano le relazioni internazionali americane. Proviamo a fare il punto della situazione, alla luce di questa visita.
Da Boeing a Qualcomm
Cominciamo dagli accordi economici, firmati in Cina alla presenza del presidente americano e del padrone di casa Xi Jinping. Con un’avvertenza. Spesso, queste intese vengono esagerate nella loro portata concreta: vengono, cioè, dati per acquisiti anche accordi non vincolanti. Il valore stratosferico, accreditato per le intese sottoscritte l’8 e il 9 novembre scorsi, è di 250 miliardi di dollari. Ha concluso un grosso affare la Boeing con la China Aviation Supplies Holding, (37 miliardi, una commessa da 300 aeromobili). Ponti d’oro anche per la collaborazione fra China Energy Investment e privati della West Virginia, sullo shale gas. Sul versante dell’hi-tech, intesa da 12 miliardi tra il colosso statunitense Qualcomm e le cinesi Oppo, Vivo e Xiaomi. Accordi anche per Goldman Sachs e General Motors.
Profondo rosso
Lo spot mercantile era inevitabile per Trump. Infatti, il saldo della bilancia commerciale statunitense con la Cina era negativo, a fine 2016, per 347 miliardi. E ad ottobre 2017 era già pari a 223 miliardi. Il dato congiunturale di ottobre era leggermente positivo, ma in termini tendenziali era il peggiore degli ultimi anni. Nella scia degli eccellenti rapporti personali con Xi, The Donald ha dato la colpa del deficit alle amministrazioni americane precedenti. Così, in un sol colpo, ha ribadito anche la bontà di “America First”: ognuno deve pensare per sé. Ovvio, ma le relazioni fra diversi s’intrattengono proprio per mediare tra gli interessi in conflitto.
Trump e il treno asiatico
Competizione con la Cina a parte, il problema per gli Usa resta quello di non perdere il treno asiatico. Il rischio c’è. E la responsabilità potrebbe essere anche di una scelta del presidente Trump. Uscire dal Partenariato Transpacifico (Tpp), firmato ad Auckland nel 2016, potrebbe non essere stata una scelta felice. Presa il 23 gennaio scorso, con un decreto esecutivo, la decisione era una promessa della prima ora della campagna presidenziale. Dovrebbe implicare la sostituzione delle relazioni multilaterali con i più antichi rapporti bilaterali. All’interno dei quali gli Stati Uniti non dovrebbero avere rivali. Intanto, però, Cina e India non sono più arginate da quella specie di “Nato economica”, che l’accordo di Auckland prefigurava. E così, per ora, gli Usa sembrano privi di una politica asiatica all’altezza delle loro dimensioni e dei loro interessi.
Dallo stallo su Pyongyang…
Venendo ai due fronti caldi sul piano politico-strategico, il viaggio asiatico non sembra aver fatto registrare sostanziali progressi. Questione Corea del Nord. A Pechino, Trump ha esortato Xi ad aumentare la pressione su Kim, dicendosi certo che l’erede di Mao possa redarguirlo. Idea non sbagliata, in sé. Ma l’imperatore rosso non è disposto a spingersi oltre le sanzioni. Il motivo, ovviamente, è che un diaframma fra sé e un alleato Usa (Seul) la Cina intende tenerselo ben stretto. Le tappe del capo della Casa Bianca in Giappone e Corea del Sud, poi, hanno confermato lo scetticismo che circonda questa amministrazione. Tokyo, per la prima volta dal 1945, attenua il suo tradizionale pacifismo. Seul, invece, sembra guardare a Washington come a fonte d’instabilità, piuttosto che di equilibrio.
… all’ombra del Russiagate
Rapporti con la Russia. Il possibile reset dei rapporti con Putin non c’è stato, a parte una dichiarazione congiunta sulla Siria. Anche quest’ultima è stata generica, perché non ha toccato il pomo della discordia, che è il destino di Assad. I Russi non sembrano disposti a mollare il dittatore di Damasco, mentre gli Americani continuano ad appoggiare i ribelli. Sulle relazioni Trump-Putin, comunque, pesa sempre di più l’ombra del Russiagate. E così, a furia d’inseguire la politica interna, quest’ultima finisce, con le sue beghe, per inibire quella estera. Per il presidente è certamente un handicap, per gli Usa un lusso che non si possono permettere a lungo.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.