Giuseppe Verdi: di dov’era? La polemica, mai sopita, è tornata rovente con la pubblicazione qualche mese fa del libro di Marco Corradi dal titolo provocatorio: “Verdi non è di Parma”, ispirato e sostenuto dal compianto presidente dalla Banca di Piacenza, Corrado Sforza Fogliani, che è sempre stato un accanito propugnatore della “piacentinità” del Maestro.
La querelle continua
Oggi ecco una nuova puntata della querelle. Vittorio Testa, giornalista blasonato, firma un articolo a tutta pagina della Gazzetta di Parma dal titolo altrettanto eloquente: “Verdi piacentino? Ma mi faccia il piacere…”. Nel pezzo, peraltro molto ben scritto, l’autore parte maliziosamente da un suo carteggio con Pupi Avati. Il regista, invitato a partecipare a un incontro pubblico su Verdi a Busseto, avrebbe cortesemente rifiutato perché di lui non sa nulla. Ma pochi giorni dopo, guarda un po’, Avati ci ripensa. E in occasione della sua partecipazione al Festival del Cinema in Pellicola di Piacenza, annuncia il progetto di un docufilm sulla piacentinità del Maestro, ispirato proprio dal libro di Corradi.
Testa poi dà atto delle argomentazioni di entrambe le parti: Verdi è nato a Busseto, in provincia di Parma, da genitori entrambi di origini piacentine. Dopo i primi successi (a Milano) e la morte della prima moglie, bussetana, decide di acquistare villa Sant’Agata, decisamente collocata in territorio piacentino, dove trascorre oltre 50 degli 87 anni della sua vita. Però, aggiunge Testa, all’epoca della nascita di Verdi non c’erano le province, nate con l’unità d’Italia. E Parma e Piacenza erano un solo ducato. Non solo, Verdi si è sempre definito “bussetano”. Del resto Verdi si è anche definito “agricoltore” in un censimento, per cui le sue parole non debbono essere prese per oro colato.
Un po’ di acrimonia?
Ma Testa, conscio dei limiti delle sue argomentazioni, supera d’un balzo ogni obiezione confrontando i cartelloni dei due teatri, Regio (di Parma) e Municipale (di Piacenza), dicendo che durante la vita del Maestro e, ovviamente, anche dopo la sua morte, Parma ha sempre aperto la stagione con un’opera verdiana mentre Piacenza lo ha quasi dimenticato.
Di conseguenza, afferma decisamente Testa, dire che Verdi possa essere considerato piacentino è e rimane una pia illusione (“una sfida già persa 140 anni fa”). Però l’articolo, ribadiamo ottimamente scritto, rivela una notevole dose di acrimonia: (una sfida) “ripresa e riarmata con vecchi strumenti bellici obsoleti”; “i piacentini all’ennesima Crociata”; “devoti adepti della Piacentinità che si richiamano alla memoria del grande piacentino Corrado Sforza Fogliani, il combattivo Conte…”
Ecco, tutti noi (piacentini) per un motivo o per l’altro abbiamo conosciuto Sforza Fogliani. Lo abbiamo definito avvocato, presidente, cavaliere (ed era tutti e tre, cavaliere del lavoro, iscritto all’albo degli avvocati e presidente non solo della Banca di Piacenza…), ma “Conte” proprio mai. E qui, questo attributo nobiliare così desueto, ci sembra rivelare l’acribia dell’articolista che, infatti, termina con un apodittico e rivelatore “parmafobici”.
La Storia racconta…
Veda, caro dottor Testa, noi piacentini ce l’abbiamo da sempre con Parma che possiede, tanto per fare un esempio, tutte le statue della dinastia Giulio-Claudia, del primo secolo della nostra era, che sono state trovate a Veleia, ma “trasferite” presso la capitale del ducato. E se dovessimo elencare i torti della nostra vicina ci avvicineremmo al trattato. Le dico solo questa: alla nascita il ducato si chiamava di Piacenza e Parma e la sua capitale era, appunto, Piacenza. Ma non per altro, solo perché era la città più popolosa del ducato. E sa qual’è stata la fortuna di Parma? Che solo due anni dopo l’erezione del ducato farnesiano, nel 1547, noi piacentini abbiamo avuto la felice idea di pugnalare il nostro duca, Pierluigi, buttandolo poi nel fossato del palazzo. E che al misfatto fosse presente uno Sforza Fogliani (il marchese Camillo) è, semmai, uno scherzo del destino.
Questo ha fatto la fortuna di Parma, non altro. Concludo dicendo che se Giuseppe Verdi, senz’altro nativo del parmense, nel maggio del 1848 (aveva 35 anni) acquista villa Sant’Agata (nel Piacentino), dove rimane fino alla morte, 53 anni dopo, forse tutto questo sviscerato amore per Parma non era così evidente. L’ottimo Marco Corradi spiega bene i contrasti che Verdi aveva avuto con i bussetani e il motivo o meglio, i motivi, per i quali aveva deciso di lasciare per sempre la natia Busseto.
Un esame di coscienza
Sia chiaro, Verdi è un genio universale e appartiene a tutti. Ma se noi piacentini volessimo guardarci, come si dice, “nelle palle degli occhi” e farci un esame di coscienza, possiamo dire che noi, oggi, non ce lo meritiamo più dei cugini d’Oltretorrente. Stiamo lasciando vendere all’asta villa Sant’Agata, scrigno di ricordi e cimeli del Maestro, oggi ridotta al lumicino, senza che nessuna istituzione locale abbia offerto davvero un determinante sostegno. Festival verdiani? Dove? A Parma, ovvio. Piacenza si balocca col “Festival del Pensare Contemporaneo”. Abbiamo Verdi, ma vuoi mettere l’appeal di Saviano?
Abbiamo l’ex Albergo San Marco, dove il maestro soggiornava a Piacenza, lasciato nel degrado più totale e nel palleggiamento tra Comune e Ausl che lo possiedono un po’ per uno. Dalle colonne di questa testata nei giorni scorsi abbiamo lanciato l’idea di intitolare il Palazzo della Provincia, di cui Verdi era stato consigliere, proprio a lui. Un modo per celebrarlo nel 210° anniversario della nascita e ricordare a tutti nel quotidiano il suo retaggio piacentino. Ma finora nessuno ha ripreso quest’idea per trasformarla in realtà… E allora, sì, dottor Testa, fa bene a sbertucciarci con un titolo alla Totò. È esattamente quello che ci meritiamo. E scusi tanto, Maestro Verdi.
Massimo Solari è avvocato cassazionista e scrittore. Ha pubblicato diversi volumi sulla storia di Piacenza e alcuni romanzi. Ha tenuto conferenze e convegni sulla storia di Piacenza. Ha collaborato con le riviste Panoramamusei, L'Urtiga, e scrive sul quotidiano Italia Oggi.