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Verso il governo Meloni: tempi e procedure, tra finti e veri equivoci

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Governo Meloni: in attesa che si riuniscano le nuove Camere per la prima volta (13 ottobre) e vengano espletati gli adempimenti preliminari della legislatura, è partita la ridda di interpretazioni ed equivoci. Mentre le prime sono, per definizione, indiscutibili nella loro arbitrarietà, i secondi possono essere di due tipi. Ci sono equivoci veri ed equivoci finti o, per meglio dire, simulati. Si può, insomma, non aver capito per davvero come stanno le cose, oppure non volerlo capire e fingere il malinteso. Ci proponiamo, allora, di fare un po’ di chiarezza. 

Occorre cominciare con una premessa. Scordiamoci che, stante la prevedibilità del risultato delle elezioni, la nuova maggioranza abbia già pronto il pacchetto delle nomine e aspetti solo di confezionarlo, col crisma delle formalità istituzionali. Il centrodestra è come chi ha il mal di denti: sarebbe disposto a fare qualsiasi cosa, fuorché andare dal dentista.

Così, l’elevata probabilità di vittoria non ha affatto messo Meloni e soci nelle condizioni di farsi trovare pronti. Tutte le scuse sono buone. Anzitutto, la necessità di conseguire effettivamente il successo: la quale, a ben vedere, non era neanche una scusa. E poi, tutte le altre: il bisogno di pesarsi tra i partiti della coalizione, il riequilibrio col numero degli eletti, le compensazioni per gli smacchi subiti nelle urne, e così via.

Le nuove Camere

Le scenografie dei prossimi giorni saranno due: nell’ordine, Parlamento e Quirinale. Il primo adempimento è l’elezione dei presidenti delle Camere. Gli esempi di condivisione di una delle due scelte con le opposizioni risalgono alla fine dell’epoca proporzionale, con le presidenze comuniste assicurate, alla Camera, da Pietro Ingrao (1976-1979) e Nilde Iotti (1979-1992).

Quando, nel 2018, è stato eletto il presidente uscente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, esponente di Forza Italia, ancora non si sapeva quale maggioranza avrebbe sostenuto quale governo. Dunque, da che si è affermato (per come ha potuto e ci è riuscito) un bipolarismo italiano, la maggioranza è stata pigliatutto. Si vedrà. Stando alle voci di corridoio, Fratelli d’Italia avrebbe sondato, inutilmente, la disponibilità di Lega e Forza Italia a cedere il passo per la presidenza di palazzo Madama al Partito democratico.

Oltre agli uffici di presidenza delle assemblee, bisognerà costituire i gruppi parlamentari, fondamentali anche per distribuire deputati e senatori nelle diverse commissioni permanenti, competenti per materia. Componenti e funzionamento di queste ultime andranno rivisti alla luce della riduzione di 1/3 circa dei membri del Parlamento, confermata dal referendum di due anni fa. Non sarà un lavoro semplice, perché già con numeri più ampi assicurare il funzionamento degli organismi, secondo la regola basica di gioco maggioranza-minoranze, era diventato complicato. 

Il rito del Quirinale

A quel punto, le quinte si sposteranno sul colle più alto di Roma. Ivi si svolgerà, si spera e si ha motivo di credere speditamente, il vero e proprio rito delle consultazioni del capo dello Stato. Si comincerà con l’ex presidente 97enne Giorgio Napolitano, quasi sicuramente sentito per telefono da Sergio Mattarella. Poi, sarà il turno dei neo-presidenti di palazzo Madama e Montecitorio; per finire con le delegazioni dei gruppi politici rappresentati in Parlamento. Si ipotizza che il centrodestra maggioritario possa ripetere l’esperienza della delegazione congiunta, già sperimentata nella scorsa legislatura, nonostante le tre forze che lo compongono marciassero e colpissero divise.

Finalmente, il presidente della Repubblica farà dare lettura, dal proprio segretario generale, della convocazione a palazzo dell’onorevole Giorgia Meloni, per conferirle l’incarico di formare il governo. Per come sembrano andare le cose, l’accettazione avverrà (come da tradizione) con riserva. L’incaricata si prenderà, verosimilmente, non meno di un paio di giorni, per compilare con gli alleati la lista dei ministri. Quindi, tornerà al Quirinale per lo scioglimento della riserva, con l’approvazione dell’incasellamento da parte del capo dello Stato. Giuramento, passaggio della campanella da Mario Draghi a Meloni, primo Consiglio dei ministri e fiducia delle due Camere porteranno via un’altra settimana, o poco meno.

Margini ristretti 

Si diceva, all’inizio, di varie interpretazioni e di equivoci, non di rado finti. Le prime si esercitano, del tutto legittimamente, riguardo al contenuto politico delle scelte. Chi siederà sugli scranni più alti dei due emicicli, quanti e quali saranno i ministri e come saranno ripartite le diverse cariche tra Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia.

Gli equivoci, va da sé, si insinuano nell’intersecazione delle scelte del prossimo presidente del Consiglio e della maggioranza con le competenze del presidente della Repubblica. Nonché, sull’equilibrio vieppiù precario tra Costituzione “formale” e “materiale”. Si allude, con queste espressioni, alla sfasatura tra il testo della Carta fondamentale, sostanzialmente resistente dal 1948 a tutt’oggi e l’evoluzione del costume sociopolitico. L’intreccio non risulta semplificato dalla laconicità delle disposizioni costituzionali in materia di formazione del Governo (articolo 92) e, quindi, dal carattere per lo più consuetudinario della disciplina in oggetto.

A parte il fatto che la flessibilità delle norme è considerata, in un ambito come questo, un pregio anziché un difetto, bisogna guardarsi soprattutto dagli equivoci simulati. Data per scontata la designazione del presidente del Consiglio, a seguito di un responso elettorale chiarissimo, resta l’approvazione presidenziale delle singole indicazioni ministeriali. Qui bisogna partire dalla considerazione della forma di governo. L’Italia è una repubblica parlamentare. Ciò significa che il capo dello Stato, incontestabilmente, non è organo provvisto di autonoma facoltà di indirizzo politico. La circostanza si comprende considerando come egli derivi il proprio mandato dai rappresentanti del popolo, mentre costoro sono stati suffragati direttamente dai cittadini.

Esiste, evidentemente, uno scarto tra l’ostentata impoliticità del ruolo presidenziale (chiamato usualmente “di garanzia”) e il fatto che il capo dello Stato sia collocato esplicitamente, dalla Costituzione, al vertice del potere Esecutivo. Nomina, infatti, il presidente del Consiglio e su proposta di questo i ministri, accetta le loro dimissioni ed emana i provvedimenti normativi del Governo, nonché ne autorizza l’iniziativa delle leggi in Parlamento. Stante, però, la natura parlamentare della forma di governo, è il presidente della Repubblica (come il monarca costituzionale) a dover assecondare gli orientamenti della maggioranza e non l’inverso.

L’ultima parola

Tiriamo le conclusioni. Per quanto riguarda la nomina dei ministri, che non è politicamente condizionata dagli esiti elettorali come quella del presidente del Consiglio, il sindacato presidenziale è certamente più ampio, oltreché sempre legittimo. Nondimeno, le richieste di cambiamento non possono esorbitare dalla stretta eccezionalità; non è detto, invece, che debbano riguardare solo i dicasteri più importanti. Qualora il dissenso dovesse essere nel merito politico delle scelte, come nel caso Savona del governo Conte I, andrebbe pubblicamente motivato, nella consapevolezza della sua assoluta gravità.

Hanno, comunque, perfettamente ragione, le consuete “fonti vicine al Quirinale”, quando affermano che sarebbe scorretto invocare l’alibi presidenziale nelle trattative previe tra le forze politiche. Il dunque si porrà solo dopo il conferimento dell’incarico.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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