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Lo scontro Draghi-Erdogan: dal “sofagate” alla vera posta in gioco…

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Mario Draghi dà del dittatore a Recep Tayyip Erdogan: una gaffe, oppure una licenza da tecnico prestato alla politica? Difficile a dirsi, anche se il noto pragmatismo del nostro presidente del Consiglio potrebbe far propendere per la seconda ipotesi. 

In effetti, super Mario ha colto al volo l’occasione che si è presentata per rifilare una stoccata al capo dello Stato turco, il quale ha reagito subito e con parole prevedibili. La sceneggiata del “sofagate”, che ha avuto per protagonisti, insieme al rais di Ankara, la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, è ancora calda. Se ne fa un gran parlare (per lo più a sproposito, secondo noi), ma si sa che ormai anche l’agenda della politica internazionale è dettata dal mainstream mediatico. Allora, prima di provare ad interpretare le parole del nostro Draghi, bisogna che torniamo all’episodio che ha funto da innesco della polemica italo-turca.

Non solo bon ton

Conosciamo ormai tutti la storia della sedia mancante e del sofà di ripiego. E non facciamo che sentir parlare, da giorni, della cafoneria di Erdogan e del suo disprezzo per le donne. Negli ultimissimi tempi, però, comincia ad affacciarsi anche un altro tipo di considerazione. A nostro avviso non è ancora quella giusta, ma ci si avvicina. Si parla, infatti, anche dell’atteggiamento non all’altezza della situazione di Charles Michel, che non ha reagito allo sgarbo istituzionale del cerimoniale turco. E questo nonostante l’irritazione dimostrata, unitamente all’imbarazzo, dalla von der Leyen.

Figuriamoci se non ci sentiamo di sottoscrivere la deplorazione di una mancanza di galanteria verso una signora. Le dovrebbe spettare il posto alla destra del padrone di casa anche se fosse la consorte dell’ospite, figuriamoci quando partecipa a nome proprio. Ci sta anche l’accusa per cui Michel si sarebbe acconciato un po’ troppo pacificamente allo sgarbo: quasi che pensasse che le cose stessero effettivamente come la disposizione turca dei posti suggeriva. È qui che ci avviciniamo ad un’interpretazione più realistica dell’episodio.

Chi fa che cosa

La rappresentanza internazionale dell’Ue a chi spetta? Poiché, nonostante l’alimentazione di chimeriche prospettive federaliste, l’Unione non è uno Stato federale ma un’intesa fra Stati sovrani, la Commissione di Bruxelles (attualmente presieduta da frau von der Leyen) non è il Governo dell’Europa. In particolare, la politica estera comune non è ricompresa nella generica partecipazione del presidente della Commissione alla rappresentanza esterna dell’Unione, condivisa col presidente del Consiglio europeo (il belga Michel) e l’alto rappresentante per la Politica estera (lo spagnolo Borrell).

È solo quest’ultimo membro della Commissione ad adempiere per conto del Consiglio – cioè, degli Stati membri – la missione fiduciaria di rappresentare la linea internazionale seguita dall’Ue. Questo, peraltro, quando sia possibile individuarne e adottarne effettivamente una comune. Man mano che passano le ore e gli stracci cominciano a volare tra Bruxelles e Strasburgo, ci rendiamo conto che, stavolta, le istituzioni europee hanno provato a scaricare su Erdogan alcuni nodi irrisolti relativi alla natura dell’Unione europea.

Le armi del Sultano  

C’è poi un’altra questione che le scaramucce sul posto a sedere non dovrebbero far passare in secondo piano. È il nulla di fatto diplomatico con cui l’improvvisata delegazione europea è tornata da Ankara. Perché, se un certo ripensamento sulla condotta verso la Grecia e Cipro per lo sfruttamento delle risorse naturali era già stato avviato dalla Turchia a fronte della minaccia europea di sanzioni, la strategia del Sultano verso il Vecchio continente non è distensiva e non lo diventerà.

Erdogan continua cinicamente a brandire l’arma dei rifugiati siriani. Ne trattiene un numero spropositato, qualcosa come 3,5 milioni. Per continuare a farlo e non riaprire la rotta balcanica, ha ricevuto finora dall’Ue 4,5 miliardi di euro dei 6 promessi. A quest’arma di condizionamento, bisogna aggiungere la spartizione che Turchia e Russia stanno portando avanti in Libia e che ha pure riflessi sul fronte migratorio, perché può mettere in mano turca anche la rotta del Mediterraneo centrale.

Senza contare la dipendenza energetica europea da Ankara, che è già grande ed è destinata ad aumentare: nel prossimo futuro, il gas russo e azero e, forse, anche quello dell’Asia centrale transiterà per infrastrutture anatoliche. Ed Erdogan si è già candidato a fare del suo Paese un leader mondiale in settori emergenti e di fatto già strategici, quali machine learning, big data, intelligenza artificiale, nanotecnologia, biotecnologia e robotica.

Draghi paladino dell’Occidente, ma…

 Su questo sfondo, sono piombate le parole di Draghi, che non ha approfittato della domanda di un giornalista solo per dare del dittatore ad Erdogan. Ha subito aggiunto, infatti, che con i dittatori dei quali si ha bisogno occorre rimarcare bene le differenze e, poi, disporsi comunque a cooperare con loro, nell’interesse del proprio Paese. Un ragionamento, al solito, molto realistico e in stile Biden. Peccato che dovrebbe restare un pensiero o una strategia condivisa con dei collaboratori, non diventare una dichiarazione pubblica. Anche perché la controparte dell’auspicata cooperazione potrebbe adontarsene. Cosa puntualmente avvenuta. 

Il Governo turco ha convocato il nostro ambasciatore e ha chiesto che il presidente del Consiglio si rimangi le dichiarazioni dell’altro giorno. La protesta non ha mancato di sottolineare la diversa posizione di Erdogan e di Draghi rispetto alla legittimazione popolare: il primo ministro italiano nominato e il presidente turco eletto. Naturalmente, l’elezione non sana tutto, né la nomina senza ordalia del consenso inficia tutto. Però, com’era prevedibile, il Sultano ha subito individuato la piaga in cui infilare il dito. Erdogan non ha la credibilità internazionale di Draghi, ma la Turchia non conta meno dell’Italia, anche se è un Paese meno ricco e socialmente avanzato. 

Non disdegnando qualche spregiudicatezza, ma dandosi anzitutto molto da fare, Erdogan è riuscito a riacquistare alla Turchia il rango di potenza regionale. L’Italia, che vanta ancora un posto tra le principali nazioni industrializzate del mondo, da sola non può forse dire altrettanto. Draghi è stato insediato per superare l’emergenza sanitaria ed economica da Covid-19. Con le dichiarazioni fuori dai denti sul presidente turco, il presidente del Consiglio ha inteso ribadire la tradizionale fedeltà nazionale all’Occidente ed agli Usa. Per adesso, però e chissà precisamente ancora per quanto, i nostri fronti di combattimento saranno altri: il resto è soltanto fonte di distrazione.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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