Ascoltare l’ambasciatore Domenico Giorgi ti lascia a bocca aperta. È uno dei massimi esperti dell’Afghanistan e dello scacchiere internazionale che ruota attorno alla riconquista del potere dei talebani nel Paese dell’Asia centrale. Una conoscenza e una capacità di analisi cristalline maturate sul campo, da quando nel 2001 Giorgi viene scelto dall’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi e dal suo ministro degli Esteri, Renato Ruggiero, per riaprire l’Ambasciata d’Italia a Kabul dopo vent’anni di guerra. Il diplomatico piacentino l’ha guidata fino alla fine del 2004. È dunque l’uomo che ha dato l’imprinting, che ha impostato tutto il lavoro diplomatico italiano in Afghanistan, proseguendo poi il suo cammino di ambasciatore a Tokyo, dove ha concluso una brillante carriera diplomatica.
Quindi, chi meglio di lui per capire come stanno le cose a Kabul e non solo? Abbiamo incontrato l’ambasciatore Giorgi a Piacenza, dove resterà ancora per qualche tempo. Ed ecco quello che ci ha raccontato.
Ambasciatore, come vede l’evolversi della situazione in Afghanistan?
“La prima cosa che colpisce tutti e riempie le prime pagine dei giornali è l’emergenza umanitaria, che ovviamente solleva problemi forti. Da un lato di sconforto, dall’altro di rabbia, dall’altro ancora di commozione per il destino di tutte quelle persone votate a diventare dei profughi trasferendosi all’estero. Oggi si parla di 20mila persone nell’aeroporto di Kabul con altre 15mila che cercano di entrare. Una situazione che quindi comincia ad assumere dimensioni preoccupanti. E poi non si parla di coloro che escono dai confini afghani per altre vie che tradizionalmente diciamo sono abbastanza porose”.
Che cosa si può fare per rispondere a questa crisi umanitaria?
“Si deve rispondere in modo civile, aprendo le porte il più possibile; ma sapendo che cosa si fa quando si decide di accettare l’arrivo di persone dall’estero che sono totalmente estranee alla nostra cultura. Quindi non si tratta solo di accoglierle e di dargli vitto e alloggio, ma di trovare il modo di integrarle nella vita sociale ed economica del nostro Paese. Un compito assai arduo e una grande responsabilità. L’Italia formalmente è un Paese che ha una buona tradizione di accoglienza, si tratta di mettere in pratica questi principi in modo concreto. So che a volte sul piano politico anche da noi è una questione controversa, ma tutto il mondo oggi dice ‘diamo una mano a queste persone’, perché non siano state solo illuse dall’aiuto che gli avevamo promesso nel loro Paese. E penso soprattutto al futuro delle donne e dei bambini”.
Di questo aiuto che noi occidentali avevamo promesso, che cosa ha funzionato e che cosa non ha funzionato in questi vent’anni di Afghanistan?
“Facciamo un passo indietro. L’Afghanistan usciva da vent’anni di guerra. Dieci anni, dal 1979 al 1989, di invasione sovietica; poi, fino al 1996 la guerra civile; infine, cinque anni di regime talebano che non auguro a nessuno. Quindi, nel 2001 il Paese era distrutto da battaglie cruente che avevano causato migliaia di morti. Con il nostro arrivo si doveva assicurare stabilità e ricostruzione. In questo quadro ha funzionato il forte impegno di buona parte della comunità internazionale nel suo complesso, mentre troppo spesso si parla solo degli occidentali in Afghanistan per una scelta americana”.
Non è un’interpretazione corretta?
“No e le spiego il motivo. È vero che l’intervento in Afghanistan è stato deciso a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001; ma non si deve mai dimenticare che l’Onu ha approvato all’unanimità l’intervento in Afghanistan, cosa forse avvenuta nella sua storia solo un’altra volta; e che altrettanto ha fatto il Parlamento italiano. Quindi c’era il concorso di tutti. Gli Stati uniti ovviamente erano il Paese più esposto e che perseguiva un obiettivo preciso: distruggere il terrorismo”.
Questo obiettivo è stato raggiunto?
“Sinceramente direi che sul piano della lotta al terrorismo è stato fatto molto. Dal lato della ricostruzione del Paese invece non tutto è andato per il verso giusto”.
Come mai?
“Perché gran parte delle risorse economiche versate dagli americani, ma anche dagli europei, dal Giappone e da altri Paesi, sono state indirizzate per ricreare l’esercito, la polizia, il settore giudiziario, ma poco è stato dato allo sviluppo economico. Credo che oggi la situazione dell’Afghanistan da questo punto di vista non sia nettamente migliore di quella di vent’anni fa. È stata costruita qualche strada… ma sono mancati molti sforzi che avrebbero dovuto accompagnare l’intervento militare centrato sulla sicurezza”.
Ambasciatore Giorgi, perché l’Afghanistan è ancora così importante sullo scacchiere internazionale?
“L’Afghanistan viene definito come la tomba degli imperi. Lì hanno perso gli inglesi e i sovietici. Adesso si dice che anche gli americani hanno subito la stessa sorte, ma per loro uso con più cautela la parola sconfitta. Perché l’Afghanistan è sostanzialmente un crocevia delle rotte terrestri tra il sub continente indiano o l’Iran e il Nord, e cioè l’Asia centrale e la Russia; tra l’Est, vedi la Cina, e l’Europa. Quindi storicamente tutti hanno cercato di controllare questo crocevia, ma nessuno c’è mai riuscito e questo non era l’obiettivo principale degli americani”.
Per quale motivo nessuno è mai riuscito a controllare questo crocevia?
“Guardi, gli afghani sono divisi da tutto, ma quando c’è quello che viene percepito come un nemico straniero si uniscono e diventano dei combattenti strenui, molto forti e disposti a qualsiasi sacrificio. È gente che vive con una pagnotta e un bicchier d’acqua. Certo, è una situazione che stride rispetto a quella che abbiamo visto in questi giorni con le ritirate di fronte ai talebani, ma chiaramente erano concordate in precedenza”.
I talebani dunque sono cauti anche per questo?
“Direi di sì. Sicuramente hanno incassato una vittoria politica. Ma se questa vittoria politica riuscirà a trasformarli in un governo stabile per il Paese è ancora da vedere. Sarei prudente nell’affermare che i talebani sono tornati per i prossimi decenni. Stiamo parlando di un Paese fatto di tante etnie, non solo perché magari parlano lingue differenti e talora hanno religioni diverse”.
Ci fa qualche esempio?
“I pashtun sono un pezzo del mondo indiano e pakistano; i tagiki sono molto legati all’Iran e al Nord, e gli uzbeki appunto all’Uzbekistan. Poi ci sono gli hazara, sciiti e di etnia turco-mongola, i discendenti dell’orda di Gengis Khan. Tutti sono estremamente fieri e gelosi della loro autonomia storica e culturale. A volte hanno delle leadership aggressive, i cosiddetti signori della guerra. Quindi, mettere ordine in quel caos a noi occidentali non è riuscito benissimo, ma nemmeno ai talebani prima versione. Tant’è che sono stati sconfitti in una guerra civile e poi dagli americani”.
Quindi stiamo parlando di un Paese molto più complicato di quanto si possa immaginare…
“Certo, quando si parla dell’Afghanistan bisogna tener conto di tanti fattori. E oggi semplificare il tutto pensando che adesso sono tornati un po’ di talebani è sbagliato. Anche perché non va dimenticato che tra l’altro hanno anime diverse. Ci sono talebani di vario tipo. Tutti i talebani sono pashtun, ma non tutti i pashtun sono talebani. E tra i pashtun non talebani, soprattutto nella zona di Jalalabad o di Khost, ci sono tribù fieramente ostili ai talebani, o perché di tradizione monarchica o per ragioni di leadership locale, che di certo non staranno dalla loro parte. Quindi, anche per questo sarei abbastanza prudente sul futuro talebano del Paese”.
Qual è la sua maggior preoccupazione in rapporto al ritiro degli occidentali?
“Sicuramente la rinascita del terrorismo. E sarà prudente imparare a difendersi da un’eventualità del genere. Andando via dall’Afghanistan perdiamo tutte le risorse informative sul posto per capire se questo avverrà o no. E quindi tutto diventerà più difficile”.
Un altro dei problemi per la comunità internazionale è che l’Afghanistan rappresenta il più grande coltivatore di oppio del pianeta con una quota del 90% della produzione: quanto ha pesato sull’incapacità di dare a questo Paese nuove prospettive economiche?
“Molto. S’è discusso tanto delle cosiddette colture sostitutive. La coltura sostitutiva più efficace, perché genera reddito alto per i contadini, è lo zafferano; ma chiaramente il mondo non può vivere di zafferano… L’Afghanistan tra l’altro non è storicamente un produttore di oppio. Lo è diventato quando l’intervento delle Nazioni Unite e dei Paesi occidentali ha sradicato le colture del papavero dal Pakistan e da lì si sono traferite in Afghanistan. Quindi, c’è un’altra lezione da imparare: quando si parla di lotta alla produzione di droga, va condotta con uno sguardo globale; pensi anche al caso del binomio Colombia-Messico, dove sostanzialmente è avvenuta la stessa cosa che abbiamo visto tra Pakistan e Afghanistan”.
Ambasciatore Giorgi, passiamo al ruolo degli emirati del Golfo persico, e in particolare del Qatar non solo perché è stato la sede dell’accordo di Doha tra l’Amministrazione Trump e i talebani che ha gettato le basi della situazione odierna…
“Il Qatar ha una diplomazia molto attiva da alcuni decenni; i rapporti tra i talebani e le monarchie del golfo sono vecchi, sono rapporti storici. Nel periodo di governo dei talebani tra il 1991 e il 1996 a Kabul c’erano aperte tre ambasciate: quelle del Pakistan, dell’Arabia Saudita e degli Emirati. Hanno punti di contatto comuni nella concezione religiosa, questa è la realtà e va detta anche quando è sgradevole. Parliamo di Paesi governati dalla sharia, dove la linea di pensiero islamica detta wahabita, dell’Arabia Saudita, è forte. Quindi non deve sorprendere che i talebani abbiano potuto trovare qualche sponda in quella parte del mondo, disposta ad ospitarli e nutrirli”.
La radice del problema è quindi nei Paesi del Golfo persico?
“No, è in Afghanistan; ma di certo una delle mosse per contenere il possibile consolidamento dei talebani, il loro rafforzamento sul piano internazionale e lo sviluppo di una nuova proiezione terroristica comporta anche il parlare chiaramente ai nostri amici del Golfo”.
E la Cina che partita sta giocando sull’Afghanistan?
“Pechino è da molto tempo estremamente pragmatica. La ritirata da Kabul degli Stati Uniti e dei Paesi occidentali apre un terreno insperato per lo sviluppo dei suoi disegni che sono ormai strategicamente impiantati sulla nuova via della seta. Per i cinesi una rotta di comunicazione terrestre attraverso l’Afghanistan per raggiungere l’Europa è dunque un vantaggio molto importante. Altro aspetto che interessa Pechino è lo sfruttamento delle risorse minerarie afghane, che pare siano maggiori di quanto si pensava un tempo; si parla di terre rare, litio e così via. E talebani o no, i cinesi sono sempre pronti a fare affari, ancor meglio se a danno degli Stati Uniti. Diciamo che con i talebani vedo soprattutto una collaborazione di interessi per l’acquisizione di posizioni strategicamente dominanti, soprattutto sul piano economico”.
Il nostro Paese invece che ruolo ha avuto e potrebbe avere in Afghanistan?
“L’Italia ha fatto molto in Afghanistan per vari motivi. Alcuni rimandano a tempi lontani, quando, capo del Governo Francesco Saverio Nitti, il nostro fu il primo Paese in Europa dopo la Prima guerra mondiale a riconoscere l’Afghanistan, anticipando addirittura la Turchia di Ataturk. Allora stavamo sulle linee di faglia del contrasto tra la Russia, poi Unione sovietica, e l’impero britannico. Per questa ragione Amanullah, il primo re afghano detronizzato, nel 1928 arrivò a Roma, stabilendo anche un ottimo rapporto con Mussolini. Trent’anni dopo, anche Zahir, il secondo re afghano detronizzato, morto pochi anni fa, scelse l’Italia per il suo esilio, consolidando un rapporto di stima reciproca tra i due Paesi”.
E venendo alla storia recente?
“Il nostro Paese sul piano umanitario ha poco da rimproverarsi. Ha favorito l’istruzione di decine di migliaia di bambini ricostruendo le scuole; ha creato ospedali e poliambulatori. E ha avuto un occhio di riguardo concreto per il mondo femminile, sviluppando attività economiche per la loro emancipazione. In più, l’Italia in certi momenti ha avuto un ruolo di grande rilievo sul piano militare. Prima a Kabul con il comando delle forze internazionali Isaf, l’International Security Assistance Force; poi dando una mano agli americani anche in situazioni molto difficili con operazioni parallele. Infine abbiamo creato il Prt, il Provincial Reconstruction Team a Herat, la terza città più importante dell’Afghanistan ai confini con l’Iran”.
Sul piano nazionale quindi abbiamo fatto bene…
“Direi proprio di sì, senza alcun dubbio e sotto tutti profili. Poi anche noi siamo parte della Nato e stretti alleati degli americani e quindi ci dobbiamo porre delle domande sulle ragioni di un fallimento, sottolineo un po’ teleguidato, agli occhi dell’opinione pubblica di tutto il mondo. Un percorso nato prima dell’amministrazione Biden, che ha le sue radici anche prima dei passi indietro fatti dall’Amministrazione Trump. Gli americani in questi giorni sono nell’occhio del ciclone, ricevono critiche da tutte le parti ma il compito di contenere il terrorismo l’hanno raggiunto e questo non va dimenticato”.
Un’ultima domanda, ambasciatore Giorgi, tornando ai profughi: una città come Piacenza in che modo può fare la sua parte?
“Guardi, è molto difficile rispondere, perché gli afghani che vivono in Italia e potrebbero fare da punto di riferimento sono pochissimi, rendendo tutto più complicato. L’aspetto chiave sarà trovare per loro attività che gli impediscano di diventare profughi di professione. Abbiamo istituzioni come la chiesa, abbiamo le ong, che di certo daranno una mano importante anche a Piacenza. Non sarà facile, ma abbiamo il dovere di provarci per dare a queste persone ciò che non siamo stati in grado di offrirgli nel loro Paese come avevamo promesso”.
Giovanni Volpi, giornalista professionista, è il direttore del Mio Giornale.net. Ha iniziato al Sole-24 Ore nel 1993. Dieci anni dopo è passato in Mondadori, a Tv Sorrisi e Canzoni, dove ha ricoperto anche il ruolo di vicedirettore. Ha diretto Guida Tv, TelePiù e 2Tv; sempre in Mondadori è stato vicedirettore di Grazia. Ha collaborato con il Gruppo Espresso come consulente editoriale e giornalistico dei quotidiani locali Finegil.