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Partito democratico in ginocchio: resteranno 4 amici al bar?

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Partito democratico, i nodi vengono al pettine. Anzitutto, ovviamente, quelli relativi all’analisi del voto e delle ragioni della sconfitta del 4 marzo. Un vero tracollo: il 18,7% alla Camera e il 19,1% al Senato. Fa 7 e 8 punti percentuali in meno del risultato di Bersani nel 2013.
Sullo sfondo, però, restano interrogativi più profondi, relativi probabilmente alle origini stesse del Partito democratico, puntualmente riaffiorati con la scissione di Liberi e Uguali.

Partito democratico: i nuovi capigruppo 

L’elezione di Elisabetta Casellati e Roberto Fico alle presidenze di Senato e Camera ha visto il Pd del tutto defilato. L’intenzione di prendere posto all’opposizione, come conseguenza della severa perdita di consensi subita, reggerà alla prova delle consultazioni di Mattarella? E quale sarà, almeno nel medio periodo, l’influenza di Matteo Renzi sul Partito democratico che ha guidato fino a ieri?

Il primo banco di prova era costituito dall’elezione dei capigruppo parlamentari. I candidati dell’ex segretario erano il suo braccio destro Lorenzo Guerini a Montecitorio e Andrea Marcucci a Palazzo Madama. Sulla carta, non c’era partita. Renzi, infatti, dovrebbe disporre di oltre 70 deputati su 111 e di 32 senatori su 54. Il rischio dell’agguato dei franchi tiratori, una delle abitudini più radicate del nostro parlamentarismo, è stato comunque sventato in extremis. Una mediazione propiziata dal reggente del Pd Maurizio Martina ha evitato la conta. Risultato: al Senato via libera a Marcucci, mentre alla Camera Graziano Delrio è stato preferito a Guerini.

Partito democratico: un mare di dubbi

Il ministro uscente delle Infrastrutture è considerato un renziano convinto. Però, essendosi fatto visibilmente critico con il leader dopo il referendum del 2016, è apparso un personaggio meno divisivo. Le minoranze di Orlando, Emiliano e Franceschini l’hanno preferito all’ex vicesegretario di Renzi. Marcucci, invece, già sottosegretario ai tempi del secondo governo Prodi, è un fedelissimo senza sfumature dell’ex presidente del Consiglio.

Il risultato dello scrutinio per i capigruppo è interlocutorio, com’è di attesa la fase istituzionale in generale. Dentro il Partito democratico la partita è sempre più aperta. La sconfitta di tre settimane fa non è che l’ennesima maturata negli ultimi 4 anni. Il segretario confermato a suon di primarie meno di un anno prima ha dovuto abbandonare l’incarico. I gruppi parlamentari recano ancora l’impronta della  designazione da parte del “giglio magico”.

Non si sa se confermare la scelta della prossima leadership attraverso le primarie, ovvero modificare lo statuto. Difficile prevedere chi si candiderà a guidare un partito in piena crisi d’identità. È incerto perfino – e diremmo soprattutto – l’atteggiamento da assumere in ordine ai tentativi di assicurare la governabilità del Paese. È giusto, per il Partito democratico, lasciar fare a centrodestra e Movimento 5 Stelle? E se il matrimonio d’interesse fra questi ultimi non venisse celebrato, Martina & company dovrebbero restare indifferenti alla circostanza?

La via obbligata dell’opposizione

Non è il caso, né abbiamo l’interesse di suggerire cosa debba fare un qualunque partito, compreso il Pd. Tuttavia, la scelta dell’opposizione, ancora prevalente tra gli eletti, appare coerente con la linea programmatica spesa in campagna elettorale. Fare lo junior partner di un’alleanza con i 5 Stelle, per il Pd, equivarrebbe a suicidarsi. Il problema maggiore non sarebbe, ovviamente, la capacità d’influenza sulla maggioranza. Infatti, la nostra storia è piena di partiti che hanno concluso di più con il ricatto che non con la proposta. Il problema più grosso sarebbe giustificare un’intesa con l’avversario per antonomasia, che ambisce con successo al consenso del medesimo elettorato. Vorrebbe dire certificare la propria sopravvenuta inutilità. Nonché buttare a mare l’idea che il guaio della sinistra italiana sia stato quello di essere troppo poco riformista.

La ridotta dell’establishment

E qui, fatalmente, torniamo a monte del problema, solo accennato all’inizio. Il connubio originario alla base del Partito democratico, quello fra eredi della tradizione comunista e laico-socialista e del cattolicesimo democratico, non funziona. Perché un conto è un’alleanza, già di per sé molto difficile, tra impostazioni molto diverse. Un altro conto è la condivisione tra queste della vita di partito. 

Sbarazzarsi delle ideologie, mantenendo però in vita le strutture politiche attraverso le quali si è cercato di tradurle in pratica nel secolo scorso, cioè i partiti, è illusorio. Il risultato rischia di essere una forza politica che è la ridotta dell’establishment. Essere un riferimento della classe dirigente è importante, ma in mancanza di consensi popolari la marginalizzazione è una prospettiva concreta.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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