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Mario Draghi fa la morale agli altri, ma dimentica l’apologo di Gesù e Fedro

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Mario Draghi: in procinto di lasciare palazzo Chigi, s’è levato nei giorni scorsi alcuni sassolini dalle scarpe. Da buon allievo dei Gesuiti, però, il presidente del Consiglio non può ignorare la parabola evangelica della pagliuzza e della trave. Attribuita a Gesù nel celebre “discorso della montagna”, riportato dai tre vangeli sinottici, è la versione cristiana dell’apologo pagano delle due bisacce, raccontato da Fedro.

Giove avrebbe dato a ciascun essere umano due sacche: quella dei pregi ben in vista sul petto, mentre quella dei difetti adagiata sulla schiena. Ognuno, quindi, è pronto a ostentare i propri meriti e stigmatizzare le pecche altrui. A latitare, invece, sono modestia e autocritica. Gesù, per parte sua, invita a liberarsi della trave conficcata nel proprio occhio, prima di spurgare della pagliuzza quello dei fratelli.

Dove vogliamo andare a parare, dopo questa introduzione? Mario Draghi gode della massima stima internazionale, come dimostrano gli onori riservatigli alla consegna, ieri l’altro a New York, del prestigioso riconoscimento “Statista dell’anno” da parte della Appeal of Conscience Foundation (premiatore d’eccezione, il vegliardo Henry Kissinger). In patria, ha fama non immeritata di civil servant. Questo capitale di accreditamento, però, non significa che, in tutte le vicende pubbliche nelle quali è coinvolto, Draghi possa andare esente da critiche. O che, quanto meno, non ci si possa interrogare in ordine al suo operato.

Non sarebbe autenticamente repubblicana, una simile discrezione. E siccome c’è odierno, diffuso avvertimento riguardo al rischio di torsioni autoritarie del sistema politico, non vorremmo senz’accorgercene tornare addirittura in regime monarchico. Iperboli a parte, veniamo a quello che non ci convince, riguardo all’epilogo del governo Draghi e al modo in cui è esso stato raccontato, anche dal diretto interessato.

I rifiuti di Roma

Anzitutto, conviene riepilogare come si è prodotta la crisi di governo, nel luglio scorso. È stato il presidente Draghi ad aver fatto inserire, nel cosiddetto decreto-aiuti, la concessione di ampi poteri commissariali al sindaco di Roma, per la soluzione del problema dei rifiuti della capitale. Tradotto in parole più semplici: per far passare una norma che scavalcasse l’opposizione dei 5 Stelle capitolini alla realizzazione del termovalorizzatore, Super Mario l’ha agganciata al treno in corsa del decreto-aiuti. Decreto, sulla conversione in legge del quale l’esecutivo ha posto la questione di fiducia.

Cosa significa? Delle due, l’una. O il governo voleva a tutti i costi far passare il termovalorizzatore e, a quel punto, poco importava chi avrebbe votato la fiducia, purché la norma passasse. Ovvero, Draghi cercava un pretesto per far saltare la maggioranza, rendendo plateale il dissenso dei 5 Stelle in Parlamento. Tertium non datur: bisogna dirlo, non si scappa.

Ad onore del vero, ci sarebbe stato di che sorprendersi anche solo dell’adesione, da parte del governo tecnico, al radicato malcostume istituzionale di inserire norme eterogenee in una legge “accelerata”. E del fatto che il presidente della Repubblica, promulgandola, non abbia avuto niente da ridire.

Lo smacco del Quirinale

Per restare a Mario Draghi, comunque, dopo che la fiducia è stata concessa, ovviamente senza il voto dei 5 Stelle, il presidente del Consiglio è salito al Colle per dimettersi. Allora: è chiaro che Draghi aveva posto la fiducia per farsela negare da una parte della maggioranza e poi “buttare dentro”, come si dice popolarmente. Infatti, tutti sanno che la vera fiducia a Draghi era stata negata a Montecitorio non in luglio, ma in gennaio, quando si era votato per la presidenza della Repubblica.

Il posto di Mattarella era stato, in qualche modo, promesso a Draghi? Il presidente del Consiglio ci contava davvero? Ha sbagliato a fidarsi? E di chi? Gli “arcana imperii” sono tali proprio perché, dal di fuori, non possono essere conosciuti. Una cosa si può dire: se nessuno è mai passato direttamente da palazzo Chigi al Quirinale, un motivo dev’esserci e, comunque, c’era nel caso di Draghi. Il suo nome, al di là dell’autorevolezza e della caratura personali, era l’ultima risorsa spendibile della legislatura.

Pieni poteri? Anche no

Ciò che proprio non si può sentire è che Draghi sia stato sfiduciato da Lega e Forza Italia. Draghi si è dimesso una prima volta, dopo il rifiuto dei 5 Stelle di votare la fiducia sul “decreto-aiuti più termovalorizzatore”. E Mattarella ha respinto quelle dimissioni, rinviando il presidente del Consiglio in Parlamento. Quindi, dopo il surreale dibattito che ricordiamo, Draghi ha detto: votatemi una delega in bianco.

Consisteva in questo, precisamente, l’ordine del giorno Casini, sul quale il governo ha chiesto l’estrema fiducia. E il Pd e Renzi, stranamente, hanno firmato e votato i “pieni poteri” a Draghi. Ricordate “i pieni poteri”, di (presunta) salviniana memoria? Qui, invece, si è votata l’effettiva concessione di una delega in bianco a Mario Draghi. Una trasposizione contemporanea dell’istituto della dittatura, ove presa sul serio. 

Presa in un altro modo (cosa senz’altro preferibile e più realistica), la messa ai voti dell’ordine del giorno Casini era la maniera per buttare la croce addosso a Salvini e Berlusconi. I quali, certo, non erano spiaciuti della grana piantata dai 5 Stelle, che spianava la strada alle elezioni anticipate, ma ai quali non si può seriamente rimproverare di non aver votato la fiducia cieca a Draghi. Storicamente, infatti, i poteri “dittatoriali” non sono mai stati conferiti volontariamente dal regime in carica (in questo caso, quello parlamentare), salvo che in caso di guerra, specie se civile.

Obiettivi raggiunti

La realtà è che il governo tecnico, insediato per non votare un anno e mezzo fa, aveva esaurito i suoi compiti proprio in coincidenza con lo scrutinio presidenziale. Ciò che conferma, neanche troppo indirettamente, l’ipotesi del “miraggio” Quirinale per Draghi. La campagna vaccinale era stata messa a terra, ricorrendo all’ovvia risorsa pubblica utile e disponibile, vale a dire la logistica militare (gestita dal generale Figliuolo). Il Pnrr era stato impostato e, come ogni progetto destinato ad essere attuato negli anni, col tempo avrebbe dovuto essere adattato, secondo le circostanze sopravvenute. Lo scoppio della guerra in Ucraina è stato impugnato un po’ da tutti, ma lo scopo sociale dell’impresa era ormai venuto meno.

Profilo appannato?

Coerentemente con le sue premesse politiche, cioè la disarticolazione del centrodestra a motivo (o con la scusa) del populismo, l’epilogo del governo Draghi è stato sostanzialmente una messinscena, consistente nell’attribuire la responsabilità dello stesso ai partiti diversi dal Pd. I problemi dell’Italia restano tutti in campo, ma il profilo di civil servant di Draghi esce parzialmente appannato, a nostro avviso. Se a ciò si aggiunge che, almeno per il momento, ha dovuto rinunciare anche a diventare capo dello Stato, si capisce come mai le scarpe che gli hanno (letteralmente) fatto gli dolgano. Che Mario Draghi se la cavi, però, solo facendo la morale agli altri, sembra una soluzione troppo dimentica della sapienza antica, pagana e cristiana.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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