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Papa Francesco e il dragone cinese: compromesso difficile o al ribasso?

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foto di Roberto Ciceri

Papa Francesco e la Cina comunista hanno siglato un primo, storico accordo. D’ora in avanti, tutti i cattolici della Repubblica popolare – pastori e fedeli – saranno in comunione con Roma. Si appresterebbe così a finire, dopo 60 anni, la clandestinità dei cristiani cinesi di obbedienza papale.

È difficile non considerare quello annunciato sabato scorso come un rilevante progresso pastorale. Discorso diverso, probabilmente, se il metro di giudizio che si dovesse impiegare fosse quello del successo politico-diplomatico. Vediamo però anzitutto che cosa si è convenuto tra le due parti di questo negoziato molto travagliato.

L’accordo di Pechino

La Santa Sede, in contemporanea con il governo cinese, ha emesso un breve comunicato sabato 22 settembre. In esso si dà conto dell’avvenuta stipula a Pechino di un “Accordo Provvisorio” sulla nomina dei vescovi. Sottoscrittori: per parte vaticana, monsignor Antoine Camilleri, sottosegretario per i Rapporti con gli Stati; per parte cinese, Wang Chao, viceministro degli Affari Esteri.

L’intesa, frutto di un graduale e reciproco avvicinamento, si situa nel quadro dei contatti in corso da tempo tra le parti, per trattare questioni ecclesiali di comune interesse. Il protocollo prevede periodiche verifiche della sua attuazione. E crea le condizioni per una più ampia collaborazione a livello bilaterale. Il comunicato termina con l’auspicio che l’accordo possa giovare alla triplice causa della Chiesa cattolica in Cina, del popolo cinese e della pace mondiale.

Azione pastorale e diplomatica

Cominciamo con una precisazione, utile alla comprensione della dichiarazione congiunta. È doveroso il richiamo alla distinzione, non sempre nota, tra Chiesa cattolica e Santa Sede. Quando si parla della prima, come in questo caso, si tratta di questioni religiose e spirituali. La Santa Sede, in quanto sede apostolica, assume sia la rappresentanza internazionale del Papato, sia quella degli interessi spirituali del Cattolicesimo presso gli Stati. Specie dove, come in Cina, l’episcopato nazionale non è libero di organizzarsi e interloquire con le autorità.
Nel caso dell’accordo sulla nomina dei vescovi, non c’entrano le relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Repubblica popolare cinese, tuttora inesistenti. Questo va detto non solo per amore di precisione, ma anche per non giudicare col metro della politica una questione pastorale.

Cina: compromesso difficile o al ribasso?

Il merito dell’intesa è ancora misterioso. La dichiarazione sino-vaticana, infatti, specifica solo che l’accordo sulla nomina dei vescovi è provvisorio, cioè suscettibile di revisione.
È però opinione unanime che il suo contenuto ricalchi quanto prospettato già 8 anni fa dal Global Times, organo semi-ufficiale del Partito comunista cinese. La circostanza è accreditata e ripresa dai principali organi di stampa nazionali e internazionali. Alla selezione dei candidati idonei all’episcopato provvederebbero le comunità cattoliche locali. I presbiteri così individuati dovrebbero ottenere il gradimento del governo cinese. Quindi, residuerebbe alla Santa Sede l’ultima parola: nel senso che essa, se volesse, potrebbe negare l’assenso e allora bisognerebbe procedere da capo alle designazioni.

Come detto, si tratta di ipotesi. Di certo c’è che la Sala stampa vaticana ha fatto altre due comunicazioni. La prima è che, in spirito di riconciliazione, il Pontefice ha revocato la scomunica ai vescovi della cosiddetta “chiesa patriottica” del regime: preti ordinati vescovi senza il mandato pontificio. La seconda è che Papa Francesco ha eretto una nuova diocesi in Cina, quella di Chengde. Era una struttura istituita dalla “chiesa patriottica”: ora il Santo Padre la riconosce, ma ne modifica il territorio. Egli va così incontro a una decisione presa da Pechino. Ma nel contempo esercita il proprio nuovamente riconosciuto potere di governo ecclesiale.

Papa Francesco: il meglio è nemico del bene

Anche solo il sentore di un possibile avvicinamento tra Santa Sede e Cina aveva fatto levare molti scudi dentro la Chiesa. Specialmente tra i membri della gerarchia rimasti fedeli a Roma nonostante le persecuzioni e la clandestinità.
Ora che dall’impressione si comincia a passare ai fatti, le reazioni sono altrettanto aspre. Il cardinale Zen e altri ecclesiastici e religiosi paventano scismi accettati dal Papa. Accusano il cardinale Segretario di Stato Parolin di svendere i martiri in cambio di un successo diplomatico. Dicono che Papa Francesco e i suoi collaboratori non avrebbero esperienza né di regimi comunisti, né di costumi cinesi. Solo il tempo dirà chi ha ragione. Intanto, mettiamo qualche punto fermo.

In tanti parlano e qualcuno ne ha anche titolo, avendo sofferto in prima persona. Poi, però, qualcuno deve decidere e nella Chiesa si tratta del Papa.
La politica religiosa del regime comunista cinese è notoriamente dura. Xi Jingping persegue un programma di nazionalizzazione di tutte le confessioni. Dubitare che faccia eccezione proprio per quella della quale ha più da temere l’autonomia organizzativa è ragionevole. Ma, dal punto di vista della Chiesa, non far niente è male, perché per Papa Francesco è male anche non fare il bene possibile.
I fedeli pregheranno per lui, perché prenda le decisioni migliori senza trascurare le domande di giustizia. Gli altri, come sempre, lo aspetteranno al varco.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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