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Rosario Livatino: l’eredità del “giudice ragazzino” proclamato beato da Papa Francesco

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Rosario Livatino è il primo magistrato a salire all’onore degli altari. È stato beatificato domenica scorsa, nella cattedrale di Agrigento, durante la Messa presieduta dal cardinale Marcello Semeraro, prefetto del dicastero vaticano per le Cause dei Santi. La sua memoria liturgica è stata fissata al 29 ottobre, giorno in cui il giudice, originario di Canicattì, era stato cresimato.

Livatino, noto come “Il giudice ragazzino”, che è anche il titolo del film del 1994 a lui dedicato, fu ucciso dalla Stidda (la mafia agrigentina) il 21 settembre 1990. L’agguato gli fu teso sulla strada statale 640 Caltanissetta-Agrigento, in un tratto di aperta campagna, all’altezza del viadotto Gasena. L’utilitaria, che il magistrato conduceva personalmente e che non era scortata da nessun uomo, né altro mezzo, venne affiancata da quella dei killer e fatta accostare. Posteriormente, altri assalitori incalzavano su una motocicletta. Il magistrato, già ferito alla spalla, tentò vanamente di darsi alla fuga a piedi nei campi. Venne subito raggiunto, di nuovo colpito alla schiena e, infine, freddato. 

Dapprima gli esecutori materiali e, quindi, i mandanti del delitto di Livatino (tutti appartenenti alla criminalità organizzata agrigentina e nissena) sono stati progressivamente assicurati alla giustizia. A noi, però, interessa soprattutto evidenziare i tratti esemplari di questa figura di cittadino e di credente.

Cresima a 36 anni

Partendo dalla dimensione religiosa, consideriamo due aspetti dell’esperienza cristiana di Rosario Livatino, entrambi verosimilmente poco noti. Il primo è che la serietà del suo approccio alla fede era talmente esigente, da condurlo a ricevere il sacramento della Confermazione a 36 anni, solo due anni prima di venire assassinato.

A pensarci, si tratta di una scelta particolare e assolutamente non facile, specie in un contesto come quello siciliano, caratterizzato da una religiosità rigorosamente tradizionale, talvolta ai limiti del bigottismo. Evidentemente, egli coltivava il dubbio sull’autenticità e la saldezza della propria fede, per saggiarne dall’interno la consistenza, a fronte di un contesto esteriore posto sotto il segno di formalismo ed ostentazione.

Credenti o credibili? 

In coerenza con queste premesse, non sorprende ritrovare, in uno scritto del beato Livatino, l’ammonimento: “Alla fine della vita, non ci sarà chiesto se siamo stati credenti, ma credibili”. Che significa: se avremo fatto la nostra parte. La questione è un po’ più complessa dell’atavico dibattito teologico tra sufficienza della fede e necessità delle opere. Il credente si compiace di far sapere che le sue azioni buone sono state fatte in Dio, ma per farle non basta appellarsi alla fede. È necessaria una maturazione complessiva della persona, che la fede anima senz’altro ma difficilmente può esaurire, specie nell’ambito di un’esperienza laica.

Rosario Livatino è additato dalla Chiesa come un esempio anzitutto siccome martire, cioè ucciso intenzionalmente in spregio alla fede. È la condizione che, come nel caso di don Pino Puglisi per volontà di Benedetto XVI, ha consentito a Papa Francesco di autorizzare la beatificazione del magistrato, senza attendere il riconoscimento di una grazia ottenuta per l’intercessione a lui attribuita.

Il magistrato e il potere

E veniamo al Livatino cittadino esemplare e leale servitore dello Stato. Colpisce, oggi specialmente quando suonano di attualità tanti campanelli di allarme sul prestigio e la credibilità della Magistratura, il suo altissimo senso del dovere. Che lo portava a rammentare al giudice – dunque, in prima battuta, a se stesso – la necessità non solo di essere, ma anche di apparire imparziale.

Il magistrato, sono sempre parole del nuovo martire, deve offrire di sé un’immagine di persona seria, equilibrata e responsabile. Vale la pena riportare anche quest’altro suo pensiero: “Solo se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare che egli abbia sugli altri un potere così grande, come quello che ha”.

È difficile non leggere in queste parole la figura del magistrato che molti sognerebbero come quello ideale. Austero, serio, poco incline alle confidenze, per lo più sconosciuto al grande pubblico. Conscio, insomma, di come il suo incarico sia qualcosa di più simile ad una missione che ad un mestiere. Da notare, fra l’altro, come Livatino non si riferisse alle prerogative del giudice, bensì direttamente al suo potere. Alludeva chiaramente alla capacità del magistrato penale di comprimere la libertà personale. Ne avvertiva così tanto la gravità, da recare una volta personalmente in carcere un ordine di liberazione di un detenuto. Una sollecitudine quasi pastorale, verrebbe da dire, pensando alla sua beatificazione. In ogni caso, aggiungiamo, una premura autenticamente umana, di chi non ignora di trattare con persone in carne ed ossa.

Ragazzino per età, esempio per valore

Ha detto di Rosario Livatino il cardinale Semeraro: non è stato un magistrato cristiano, ma un cristiano che faceva il magistrato. Aggiungendo che, con questo, intende richiamarne la costante rivendicazione dell’unità fondamentale della persona. L’idea che il cristiano andasse lasciato a casa per fare il giudice non era accettabile, secondo il futuro martire, perché altrimenti a rimetterci sarebbe stata l’autenticità del magistrato stesso.

“Picciotti, che cosa vi ho fatto?”, disse Livatino appena prima di essere finito dal suo assassino, con un colpo di pistola in pieno volto. Come in vita si era preoccupato di non mettere a repentaglio l’esistenza di altri e, per questo, aveva rifiutato la scorta e, pare, perfino di sposarsi, così in morte il giovane giudice ebbe un pensiero per i suoi assassini. “Che cosa vi ho fatto” non suona, infatti, soprattutto come una condanna, quanto come un accorato appello alla conversione. 

Non sappiamo, né qualcuno potrà mai dire fino in fondo, se qualcuno si converta per davvero. Di certo, più prosaicamente, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga si trovò pentito di aver coniato l’espressione “giudici ragazzini” per designare i giovani uditori giudiziari di prima nomina, nelle terre sotto scacco della criminalità organizzata. Il senatore a vita avvertì di dover riconoscere l’esempio civico e cristiano di Rosario Livatino. La Chiesa oggi, beatificandolo, ne svela, dal proprio punto di vista, il segreto della perenne giovinezza.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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