Bettino Craxi preso a monetine da un folto gruppo di arrabbiati organizzati, fuori dal suo quartier generale romano, l’Hotel Raphael. Correva l’anno 1993, il 30 aprile, esattamente trent’anni fa. Rivedere le poche istantanee e il breve filmato di quel tempo che sembra lontanissimo fa una certa impressione a chi ha ricordi diretti della circostanza. Richiamare quell’episodio tristemente simbolico ci serve per riflettere su alcuni tratti del nostro costume collettivo. Nonché, naturalmente, su pregi e difetti di Craxi, leader socialista e tra gli statisti italiani della seconda metà del secolo scorso.
Sotto i colpi di Mani Pulite
Torniamo, prima di tutto, al clima di quei giorni e alla parabola discendente dell’uomo politico. “Mani Pulite”, sintesi giornalistica delle inchieste milanesi sulla corruzione imprenditoriale e politico-amministrativa, ha allora poco più di un anno di vita (febbraio 1992). È già chiaro che non si sarebbe esaurita, come auspicato proprio dal leader del Psi, nel castigo di pochi mariuoli presi con le mani nel sacco.
L’ex presidente del Consiglio, nella primavera del 1993, è prossimo all’abbandono del Paese. Craxi non è più segretario del suo partito da febbraio e ha ricevuto una pioggia di avvisi di garanzia, preannuncio di imminenti processi. Solo il giorno prima del fatidico 30 aprile, la Camera dei Deputati ha negato l’autorizzazione a procedere per 4 dei 6 procedimenti intentati in quel momento a carico di Craxi. Questo fatto scatena l’indecorosa gazzarra dei contestatori organizzati. Dal Msi di Gianfranco Fini al Pds di Achille Occhetto, passando per la Lega Nord di Umberto Bossi, in tanti fomentano quel fugace, ma non per questo meno detestabile episodio di gogna in pubblica piazza.
L’esilio in Tunisia
I fatti accelerano rapidamente. Non più ricandidato alle elezioni del marzo 1994, che vedranno il sorprendente successo di Silvio Berlusconi (uno dei suoi principali amici e finanziatori), Craxi ripara in maggio nella Tunisia dell’amico Ben Ali. Formalmente latitante dal luglio 1995, riporta due condanne definitive. Per corruzione nel processo Eni-Sai (1996); e per finanziamento illecito dei partiti per le tangenti della Metropolitana Milanese (1999).
Malato da tempo di diabete, contrae anche un tumore al rene, finché muore per un arresto cardiaco il 19 gennaio 2000, poco prima di compiere 66 anni. La famiglia rifiuta le esequie di Stato, offerte dal secondo governo D’Alema, in polemica con la precedente negazione di un salvacondotto, che potesse consentire a Craxi di rientrare in Italia da uomo libero, per attendere meglio alle cure. È sepolto nel cimitero di Hammamet. Con un epitaffio che ne sintetizza l’intera esistenza e l’amaro epilogo: “La mia libertà equivale alla mia vita”.
Colpe negate e colpe ammesse
Ridurre la vicenda di Bettino Craxi al suo aspetto giudiziario sarebbe non solo ingeneroso, ma anche stolto e, propriamente, impossibile. Indipendentemente dal suo diritto di dichiararsi comunque innocente, Craxi aveva respinto costantemente le accuse di corruzione e arricchimento personale. Per contro, pure con celebri ed insistite chiamate di correo, aveva ammesso esplicitamente le proprie responsabilità per il finanziamento illegale della politica.
La rivalità col Pci di Berlinguer
Il leader del Psi ha pagato, nell’avversione patita a livello mediatico e giudiziario, uno stile personale inconfondibile, assolutamente sconosciuto alla politica nazionale di allora. Forte, deciso ai limiti dell’arroganza nei modi, ostentatamente spigoloso. Tutto il contrario dell’inamidata e sfumata classe dirigente democristiana. Non parliamo, poi, della polemica a sinistra col Pci e dell’incomprensione personale con Enrico Berlinguer. Non si trattava solo della ricorrente tensione tra le due anime (ortodossa e riformista) della sinistra di derivazione marxista. Si trattava del diverso modo di concepire le istituzioni e starvi dentro.
Quando si consideri che, pochi giorni prima di morire, Berlinguer aveva affermato come fosse inaccettabile che il governo Craxi adottasse un decreto-legge sulla scala mobile, senza il consenso della componente comunista (maggioritaria) della Cgil, appare chiaro che con il segretario del Psi non erano fatti per intendersi, non solo umanamente. E, in qualche modo, la pioggia di monetine al Raphael del 1993 sembrava risarcire la memoria del segretario del Pci, fischiato dai socialisti a congresso a Verona nel 1984, quando Craxi aveva chiosato caustico: “Se i fischi erano un segnale politico, che manifestava contro quella politica, io non mi posso unire solo perché non so fischiare”.
Grandi visioni e obiettivi traditi
Il paradosso, che avvolge sempre le vicende umane, ha fatto sì che Craxi abbia pagato per i mezzi con cui ha cercato di perseguire due disegni che, in ogni caso, non è riuscito a realizzare. L’uno, quello politico, era uniformare i rapporti dentro la sinistra italiana alle proporzioni esistenti in Europa; cioè invertire la prevalenza comunista sulla minoranza socialista. L’altro, quello istituzionale, era la «grande riforma», come lui stesso l’aveva definita; vale a dire il cambiamento degli assetti e delle forme istituzionali, per riconoscere priorità al potere Esecutivo e al suo dovere di rispondere più sollecitamente alle esigenze di un mondo in rapida trasformazione.
Craxi aveva sacrificato il primo disegno all’ambizione personale e politica di diventare il primo presidente del Consiglio socialista di un governo, però, democristiano per l’essenziale, fondato com’era sulla formula del pentapartito (Dc, Psi, Psdi, Pri, Pli), erede del centrismo degasperiano prima e poi del centrosinistra fanfaniano e moroteo. Ghino di Tacco (pseudonimo storico-letterario, con cui Craxi firmava i propri corsivi sull’Avanti!) aveva lasciato cadere pure l’idea della riforma istituzionale. Non era solo questione di ambizione personale da sacrificare, in caso d’insuccesso. Probabilmente, era anche presa d’atto che la repubblica dei partiti non avrebbe lasciato volontariamente il posto ad un altro regime. E Bettino Craxi è sempre stato, appassionatamente, uomo di partito.
Capro espiatorio e viltà
Dell’Italia, cosa ci dice, a trent’anni di distanza, la gazzarra del Raphael? Ne abbiamo scritto recentemente, a proposito di patrioti e 25 aprile. Gli italiani, ci siamo detti, sono sempre gli altri. Tradotto in questo contesto: la vulgata della classe politica predatoria a danno degli onesti cittadini regge fino ad un certo punto. I costi maggiori, per la causa nazionale, sono quelli che un ceto politico spesso non all’altezza ha fatto pagare all’erario per alimentare il proprio consenso elettorale. Il popolo, questo consenso, lo ha a lungo più o meno consapevolmente prestato, salvo poi odiare nella classe dirigente la parte peggiore di se stesso.
Bettino Craxi è stato un uomo di visione, qualità rara e propria dello statista. Purtroppo, è rimasto radicato nella logica in cui si era formato e affermato, quella di partito. Difficilmente, l’uomo di parte può riuscire a fare prevalere l’interesse generale su quelli particolari. Corre, anzi, il rischio di farsi trascinare in una spirale competitiva, in cui ciascuno combatte con le armi che ha. Contro di lui è stata brandita la questione morale, ma quella nazionale era e rimane prioritaria. La gogna delle monetine del Raphael, invece, lasciamola al posto che le compete, nelle scorie della viltà.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.