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Fallimento: il caso Bramini e la legge di Darwin

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Fallimento: il caso Bramini l’ha riportato in primo piano. “Fallito per colpa dello Stato”. Si definisce così l’imprenditore brianzolo di 71 anni che ha subito l’ultimo oltraggio: lo sfratto dalla villa dove abitava. E lo dice perché sostiene di vantare 4 milioni di euro di crediti verso lo Stato, che non lo sta pagando. Solidarietà da parte della Lega e dei 5 Stelle. Visita di Salvini: tutto inutile.

La storia di Sergio Bramini sarebbe tutta qui, una delle tante. Tanto che lo stesso Stato, qualche anno fa, ha addirittura varato una legge (la n. 3/2012) chiamata “salva suicidi”, che demanda al Tribunale la composizione della crisi. Il giudice, dopo aver fatto sottoporre la posizione economica dell’imprenditore ad una radiografia minuziosa da parte di un professionista abilitato, propone ai creditori una soluzione di compromesso che consenta di salvare capra e cavoli. E allora proviamo a scendere nel dettaglio. Non tanto della singola vicenda legata ai crediti vantati nei confronti del settore pubblico, ma del sistema in generale.

Fallimento, una spada di Damocle

È dichiarato fallito l’imprenditore (non può esserlo un privato) o la società che non sono “in grado di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni”. Cioè quando è in crisi di liquidità. La norma è antichissima. L’attuale codice del fallimento risale al 1942, anche se ha avuto notevoli modifiche dal 2006 ad oggi. Dunque, anche se il “bilancio” dell’azienda è positivo, se i crediti non sono facilmente esigibili, è possibile che il tribunale dichiari il fallimento.

Esistono però una serie quasi infinita di rimedi che anche un mediocre legale riesce a mettere in campo per evitarlo. Il consulente mediamente avvertito sa che, prima di tutto, si possono compensare con lo Stato (Equitalia prima, ora Agenzia Entrate Riscossione) debiti e crediti, purché certificati. Se (e si sottolinea il se) i crediti sono reali e certificati, il rischio più grave è scongiurato.

Tuttavia i crediti nei confronti dello Stato possono essere ceduti anche alle banche, che vantano crediti nei confronti dell’imprenditore. Non solo, si può anche usare il rischio del fallimento come spauracchio verso i creditori. Sanno bene che la procedura è lunghissima e costosa. E che molto difficilmente otterranno integrale soddisfazione dei loro crediti.

La beffa della “moneta fallimentare”

Infatti il curatore, che viene nominato dal Tribunale con la sentenza dichiarativa del fallimento e che sostituisce l’imprenditore nella gestione dell’azienda, non paga con moneta normale. Ma con moneta fallimentare, molto simile ai bitcoin. Non ha importanza quanto debba prendere il creditore. Se non ha un credito garantito (ipoteca) o privilegiato (dipendente o artigiano) verrà pagato in modo virtuale. Con moneta, appunto, fallimentare. Il che, normalmente, induce il creditore alla prudenza. Chiedere il fallimento del proprio debitore si rivela spesso una vittoria di Pirro.

Fallimento e lavoro

Normalmente, dunque, lo Stato offre all’imprenditore onesto che vuole salvarsi da una situazione difficile tutti gli strumenti per uscirne a testa alta. Non senza sacrifici. Di solito ne fanno le spese i dipendenti, che perdono il posto di lavoro. E l’imprenditore, che assieme all’azienda perde spesso tutte le sue altre proprietà, soprattutto immobiliari.

Ma la legge fallimentare impone al curatore di tentare di vendere l’azienda nella sua interezza, cercando di salvaguardare il più possibile i livelli di occupazione. E allora delle due l’una: o l’impresa, per la sua tipologia, per i suoi livelli tecnologici, per il suo parco clienti, è ancora appetibile, e allora facilmente si trova un altro imprenditore che l’acquista. Oppure – ed è la quasi totalità dei casi – l’impresa è un dinosauro che opera in settori in crisi (tipico esempio l’impresa edile) e non ha nessun appeal. Chi comprerebbe mai oggi una fabbrica di locomotive a vapore?

La legge di Darwin

Eppure in Italia ne esistono ancora tante. E se falliscono, seguono semplicemente la legge di Darwin sulla selezione naturale. L’imprenditore che non ha saputo differenziare la sua produzione, la sua clientela (e i 4 milioni di crediti verso lo Stato di Bramini non sembrano d’acchito un sintomo positivo), adeguandosi anche alle moderne tecnologie, è un dinosauro. Che merita solo di finire al cimitero degli elefanti.

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Massimo Solari è avvocato cassazionista e scrittore. Ha pubblicato diversi volumi sulla storia di Piacenza e alcuni romanzi. Ha tenuto conferenze e convegni sulla storia di Piacenza. Ha collaborato con le riviste Panoramamusei, L'Urtiga, e scrive sul quotidiano Italia Oggi.

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