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Riforma della Giustizia: dove sbaglia il ministro Cartabia

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Marta Cartabia va alla guerra: con un deciso discorso ieri ha annunciato alla maggioranza di governo che se entro la fine del 2021 non si dà mano alla riforma della Giustizia è molto probabile che tutti gli aiuti europei andranno sotto l’uscio.

La riforma delle riforme

Il suo piano di battaglia è molto semplice: il Parlamento dovrà approvare le leggi delega – cioè le linee guida – entro il 31 dicembre. La riforma dovrà riguardare prima il processo penale, poi i metodi di elezione del Consiglio Superiore della Magistratura e infine il processo civile.

Bene. Benissimo anzi: tralasciando il Csm che agli italiani, come direbbe Montanelli, interessa “poco o punto”, il vero snodo sarà il processo penale che vive nel guado dopo che il precedente guardasigilli, Alfonso Bonafede, ha provato a riformarlo ma si è bloccato sulla prescrizione che è diventato cavallo di battaglia di tutte le opposizioni.

Difficile la strada della Cartabia che tra l’altro non ha nessuna esperienza sul campo essendo passata dagli studi accademici alla Corte Costituzionale e da lì al ministero di via Arenula con vista sul Quirinale, dove molti la vedrebbero volentieri dopo Mattarella.

Però potrebbe anche portare a casa una mezza riformina del processo penale, forse sufficiente all’Europa per aprire i cordoni della borsa, aiutata dalla situazione contingente e dalla moral suasion di Draghi che, non sapendo a sua volta nulla di procedura penale, non capisce perché i partiti della sua maggioranza e segnatamente Salvini, Letta e la galassia 5 stelle si stiano accapigliando sulla riforma. Salvini ieri è perfino giunto a minacciare un referendum che è come dire fare un’operazione al cervello con i guantoni da boxe.

Il vero malato

Ma quello che mi fa inorridire – speriamo che non sia così – sono le indicazioni della Cartabia sul processo civile, il vero malato del sistema e quello che sta più a cuore all’Europa: il processo penale, a parte alcune eccezioni, marcia. E comunque ha pochissima rilevanza sull’economia e sugli investimenti, che invece dipendono in gran parte dalle disfunzioni del processo civile che definire eterno e/o bloccato è quasi doveroso.

E cosa hanno inventato gli esperti del Ministro? Ecco le loro linee guida:

  • organizzazione e innovazione tecnologica;
  • impulso degli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, con riguardo anche alla dimensione endoprocessuale;
  • ulteriori modelli processuali speciali da elaborare in considerazione delle più rilevanti criticità del processo civile.

Verrebbe voglia di rispondere alla Checco Zalone: “Ma sono del mestiere questi?”

Organizzazione non vuol dire niente. Innovazione tecnologica poco di più: da anni il processo civile è telematico e funziona anche abbastanza bene. Più che farlo telematico non riusciamo a capire cosa si voglia fare, anche perché  per la pandemia sono state create le udienze figurate e le udienze telematiche che stanno dando abbastanza buona prova. In molti casi, cioè, si evita di andare in Tribunale per attendere due ore per scrivere a verbale tre righe: quello che si vuol dire lo si invia via web 5 giorni prima e il giudice decide (dovrebbe decidere, anzi).

Impulso agli strumenti alternativi… con riguardo alla dimensione endoprocessuale. Endoprocessuale vuol dire a processo già iniziato. E il giudice ha già il potere, da anni, di sospendere il processo e di inviare le parti davanti a un conciliatore se lo ritiene utile per definire il processo. Ma, osserviamo, questa possibilità il giudice la utilizza pochissimo, dunque non sembra risolutiva. Gli strumenti alternativi sono la conciliazione. Che in molti casi è come dire che la famosa operazione al cervello la fa l’addetto alle pulizie della sala operatoria con due infermieri.

L’esempio del lavoro

Non solo: da sempre esisteva una commissione perfetta, competente e veloce che è istituita presso ogni Direzione Territoriale del Lavoro, in ogni provincia, ed è composta da un dipendente del ministero, un rappresentante dei sindacati e uno delle organizzazioni datoriali. Fino a poco tempo fa era obbligatoria: non potevi accedere al giudice del lavoro se non eri passato dalla Commissione (completamente gratuita) che molto spesso risolveva la vicenda grazie alla sua specializzazione e alla sua competenza. Ora è diventata facoltativa!

Ma quello che fa salire il crimine è la terza linea guida: “ulteriori modelli processuali”. Ne abbiamo già 18, arriveremo al diciannovesimo? Ce ne vogliono due, massimo tre: uno per i processi semplici, uno per i più complessi. Punto.

I giudici onorari

E non dimentichiamo che in Italia, al 29 febbraio 2019, i magistrati togati, cioè di carriera, erano 9.400. Se calcoliamo, a spanne, che i magistrati inquirenti, nelle procure, sono da un quarto a un terzo del totale, i magistrati giudicanti sono circa seimila.

Ma ce ne sono cinquemila che sono giudici onorari, che decidono il 60% delle cause civili. Questi giudici – avvocati o pensionati del settore pubblico che per la maggior parte hanno le capacità e le competenze per fare questo lavoro (le eccezioni ci sono sempre, anche tra i giudici togati) – sono pagati a cottimo con cifre imbarazzanti; soprattutto se paragonate ai magistrati di carriera che partono a 27 anni da 2.200 euro per arrivare dopo vent’anni di carriera a circa 6mila, che diventano dai 10 ai 12mila quando arrivano al vertice di qualche ufficio: procuratore capo, presidente di sezione, presidente di tribunale o di Corte d’appello e via discorrendo.

Insomma, basterebbe una leggina, altroché riforma epocale, per assumere in servizio permanente questa categoria, dargli magari 2.500 euro al mese ma farli lavorare tutti i giorni per risolvere il problema. Infatti, i giudici onorari, per mantenere bassa la loro retribuzione, vengono fatti lavorare chi uno, chi due, chi tre giorni alla settimana. E sono proprio i giudici togati – influentissimi sulla politica – ad opporsi a questa soluzione per motivi di casta.

A Marta Cartabia, dunque i nostri migliori auguri.

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Massimo Solari è avvocato cassazionista e scrittore. Ha pubblicato diversi volumi sulla storia di Piacenza e alcuni romanzi. Ha tenuto conferenze e convegni sulla storia di Piacenza. Ha collaborato con le riviste Panoramamusei, L'Urtiga, e scrive sul quotidiano Italia Oggi.

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