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Trump e la politica estera americana: dove va The Donald?

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Donald Trump, il vertice Nato di Bruxelles e il rendez-vous con Vladimir Putin a Helsinki: molto rumore per nulla? La polemica con i partner atlantici, prima e dopo il summit nella capitale belga, non ha smosso granché. Ma si sa che, per un devoto della comunicazione social come “The Donald”, un annuncio vale almeno quanto il suo contenuto. E, almeno a breve termine, più delle sue conseguenze. Basti pensare all’ultimo battibecco a distanza con il presidente iraniano Hassan Rouhani, a suon di minacce, repliche e controbattute di rappresaglie.

Quanto al disgelo con Mosca, è opinione diffusa che non di questo si tratti. A venire in causa sarebbe, semmai, il noto feeling personale del presidente americano con il leader moscovita. Senza dimenticare la necessità di uscire dall’angolo del Russiagate.
Ma la notizia, pur non essendo nuova, è la smentita ai limiti della serietà, cui il tycoon si è ritenuto costretto non appena rientrato a Washington. Un’autentica inversione di marcia a proposito del ruolo della Russia nella campagna presidenziale del 2016. Andiamo con ordine, comunque, cominciando dalle spese militari dell’alleanza nordoccidentale.

Nato: le ragioni di Trump

Parlando dell’Alleanza atlantica, l’aspetto più curioso, come notava Franco Venturini sul Corriere della Sera, è che Trump rischia di sbagliare avendo ragione. L’ossimoro si spiegherebbe facilmente. Il principale pagatore della Nato ha diritto di reclamare che ogni Paese membro faccia la propria parte. Questo, però, non dovrebbe avvenire a dispetto di una frantumazione della solidarietà transatlantica, specie a fronte della rinnovata esuberanza russa.

Non basta. Nei giorni scorsi, il capo della Casa Bianca ha definito nemica l’Unione Europea, sia pure limitatamente alla guerra dei dazi. Se a ciò si aggiunge che, nella polemica sulla Brexit, Trump ha esortato la premier Theresa May a far causa all’Unione, la frittata a ovest sembrerebbe fatta. In realtà, non è cambiato nulla. Gli altri capi di stato e di governo della Nato hanno confermato l’impegno a far salire il loro contributo di bilancio al 2% del Pil. Entro il 2024, però, come da accordi presi nel 2014, al tempo dell’amministrazione Obama. Il presidente Usa a Bruxelles aveva dato per probabile un aumento addirittura al 4 % del Pil. Ma quest’ultima iperbole è stata del tutto ignorata dai suoi colleghi.

The Donald e il Russiagate

Il fronte russo è molto più caldo. Prescindendo da quanto ci credano veramente, il Russiagate è la bomba a orologeria piazzata dai nemici di Trump sotto la sua presidenza. È chiaro che il passare del tempo la fa sembrare sempre di più come un’arma spuntata. Tuttavia, un condizionamento così forte della politica estera, tradizionale dominio riservato del Presidente, sembra l’unico handicap capace di minare un potere altrimenti inattaccabile. Almeno, finché non dovesse essere un rovescio dell’economia a incunearsi fra Trump e i suoi sostenitori.

La pantomima delle smentite post-conferenza stampa con Putin (“Non vedo perché la Russia non dovrebbe essere ritenuta responsabile per le interferenze nelle elezioni americane”) erode la credibilità statunitense nel mondo. Non è detto, però, che faccia altrettanto con il consenso del tycoon. La sua strategia, infatti, non cambia. Pochissima discrezione sulle questioni riservate o addirittura secretate. Rivendicazione di coerenza tra promesse e realizzazioni, anche a scapito di tradizioni interne consolidate e trasversali. Conduzione della politica estera secondo schemi apertamente affaristici, come il bluff. Insomma: il presidente americano non è intenzionato a dismettere il bagaglio politico non convenzionale, pescando dal quale ha rivestito tutta la sua avventura politica.

America first e ragion di Stato 

Un errore da non commettere, però, è ritenere che questa condotta stressante sia figlia dell’improvvisazione. Non si diventa Presidente degli Stati Uniti sull’onda del dilettantismo. Una volta eletto, l’inquilino della Casa Bianca risponderà ad altri più di quanto la gente non pensi. Ma certo uno sprovveduto non arriverà nello Studio ovale.

Trump ha una linea, anche in politica estera. Piaccia o non piaccia, essa è all’insegna di “America first”, che in Europa viene considerata l’anticamera dell’isolazionismo. Punta a ridurre il peso dello spirito e delle istituzioni multilaterali, in favore di relazioni bilaterali, nell’ambito delle quali gli Usa appaiono senza rivali. A ben vedere, però, questo non avviene rinnegando tutta la politica precedente. È vero, ad esempio, che “The Donald” ha simpatia per Putin e per questo si è spinto a invitarlo a Washington in autunno. Ma intanto mantiene le sanzioni, invise a tanti, tra cui noi Italiani. Dicono che lo zar non ci avesse mai sperato per davvero. Ma, quand’anche fosse così, che importanza avrà annesso, allora, alle altre parole di Trump? Sembra, infatti, che nel colloquio a due si sia parlato di tutti i temi internazionali rilevanti: Siria, riduzione degli armamenti, terrorismo.

Ecco un altro risvolto di “America first”, che pochi hanno additato. Noi pensiamo che sia la destabilizzazione delle relazioni internazionali, quelle intrattenute fra cancellerie e ambasciate. Per parlare chiaro ai cittadini, si alimenta l’incertezza fra gli addetti ai lavori. Sarà anche un passo avanti della democrazia, ma il sacrificio della ragion di Stato rischia di essere troppo oneroso. E a rimetterci sarebbero tutti, compreso l’uomo della strada.

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Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.

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