Caso Natoli-Csm: l’ultimo scandalo all’interno dell’organo di autogoverno dei magistrati ripropone l’annosa questione della riforma della Magistratura. Ne avevamo parlato quando il governo Draghi tre anni fa si era limitato ad ottemperare agli impegni europei connessi all’erogazione dei fondi del Pnrr. Si trattava essenzialmente di un intervento sui tempi biblici della giustizia (smaltimento dell’arretrato, durata dei singoli gradi di giudizio, e così via). Sin da allora, però, lamentavamo la sostanziale indifferenza di Draghi per interventi costituzionali sull’autorità che provvede all’esercizio della giurisdizione, appunto la Magistratura.
Partiremo subito, ricapitolando i fatti di cronaca della vicenda di Rosanna Natoli. Prima, però, ricordiamo anche la stentatezza dello slancio riformatore del governo Meloni in quest’ambito cruciale, tema di cui avevamo parlato, poco meno di un anno fa. Ci lamentavamo dell’assurdità consistente nel pretendere di tenere separato un ripensamento dell’assetto della giurisdizione da una riconsiderazione d’insieme dell’Ordinamento della Repubblica (Parte II della Costituzione). Adesso che di riforme costituzionali non si parla nemmeno più, non sappiamo se sentirci abbattuti o sollevati.
Fascetto e Natoli
Veniamo al caso Natoli. Il magistrato di Catania Maria Fascetto Sivillo era sotto procedimento disciplinare al Consiglio superiore della magistratura per un fatto non inerente all’esercizio delle sue funzioni: avrebbe preteso la cancellazione di una cartella esattoriale, comportamento per cui ha riportato una condanna penale in primo grado. Le decisioni sulle sanzioni disciplinari da irrogare ai magistrati sono di competenza del plenum del Consiglio, ma la pratica di quello che è a tutto gli effetti un processo viene prima istruita dalla Sezione disciplinare dello stesso Csm. Rosanna Natoli, di professione avvocato, consigliere «laico» (cioè non togato, non appartenente alla Magistratura ed eletto dal Parlamento) del Consiglio, era una dei componenti di questa Commissione. Sicché, era una dei giudici disciplinari di Fascetto: conosceva, quindi, il capo d’incolpazione e gli elementi raccolti dalla Sezione disciplinare a carico del magistrato.
Succede che la dottoressa Fascetto, pendente il procedimento disciplinare nei suoi confronti, si rechi a Paternò (Catania), nello studio privato professionale della consigliera del Csm Natoli, per parlare proprio della causa d’incolpazione disciplinare accennata. L’imputato che va a casa del giudice per parlare del processo: caso classico di ipotizzabili corruzioni e concussioni, nonché più blande fattispecie come la rivelazione di segreti d’ufficio (per cui Natoli risulta attualmente indagata dalla procura della Repubblica di Roma).
Detta la cosa più grave, resta ancora quella più sorprendente. Infatti, com’è emersa la circostanza dell’indebito contatto tra Natoli e Fascetto? Ad iniziativa della stessa magistrata Fascetto: la quale, già versando in un’incolpazione disciplinare, ha pensato di registrare l’indebito colloquio con il giudice disciplinare Natoli e consegnarlo su un apposito supporto informatico agli inquirenti. Davvero un modo strano per provare ad alleggerire una posizione già tutt’altro che semplice. Né, forse, basta sapere che il difensore della dottoressa Fascetto sia il celebre avvocato Carlo Taormina, per spiegarsi un comportamento del genere: anche il machiavellismo deve avere dei limiti.
Da La Russa a Mattarella
Prima di dire che cosa pensiamo che questa vicenda insegni al Paese, dobbiamo ricordare ancora alcune cose. La prima è che, indipendentemente da come la circostanza dell’incontro avvenuto a Paternò sia emersa, l’avvocato Natoli avrebbe immediatamente dovuto dimettersi, ovvero almeno autosospendersi dal Csm. Invece, ha resistito strenuamente dallo scorso mese di luglio, sino a che l’altro giorno non è stata sospesa con delibera del plenum del medesimo Consiglio, adottata con la prescritta maggioranza dei 2/3 (raggiunta per un solo voto).
La seconda cosa è che il caso ha avuto grande eco mediatica perché è risaputa la vicinanza (di nascita e politica) di Natoli con il presidente del Senato Ignazio La Russa, suo conterraneo, ex collega nell’avvocatura e amico personale. Naturalmente, da questo legame si evince pure come l’elezione di Natoli al Csm da parte del Parlamento sia avvenuta in quota Fratelli d’Italia.
La terza cosa riguarda l’assordante silenzio del capo dello Stato/presidente del Csm sulla vicenda. È nota l’indole generalmente riservata e al limite del sussiego di Sergio Mattarella. Del pari, s’intuisce la delicatezza del fatto in predicato, stante la riferita vicinanza tra la consigliera Natoli e la seconda carica dello Stato. Tuttavia, il mutismo totale del presidente della Repubblica si presta ad avvalorare (pur senza dichiarare apertamente) la veridicità del presunto gioco di sponda tra Natoli e La Russa a favore dell’ostinazione della prima a non fare un passo indietro.
Cambiare alla radice
La Magistratura, insieme agli altri poteri della Repubblica, è da riformare. La necessità di questa riforma è innegabile e sarebbe improcrastinabile. Fondamentale è ritenere l’inscindibilità del riassetto della Giurisdizione da quello dei poteri Legislativo ed Esecutivo: l’uno non può farsi separatamente da quello degli altri due e viceversa.
In particolare, la vicenda Natoli suggerisce la radicale inefficienza della giustizia disciplinare a carico dei magistrati. Si è parlato spesso della responsabilità civile di questi ultimi, si sono celebrati persino dei referendum sul tema, ma si trattava nient’altro che di ballon d’essai. È la responsabilità disciplinare che dev’essere, nel caso, rigorosamente eccepita e sanzionata e, in questa prospettiva, ostinarsi a mantenere tutto sotto l’ombrello rotto dell’autogoverno della Magistratura – cioè della sua piena autoreferenzialità – significa rifiutarsi di affrontare il problema alla radice.
La proposta di riforma costituzionale depositata dal governo Meloni prevede l’istituzione di due distinte Corti di disciplina per i giudici e per i magistrati requirenti, esterne ai due nuovi Csm ed i cui componenti sarebbero eletti per metà dal Parlamento e per metà dai togati interessati (previo sorteggio degli eleggibili). Si tratta di un passo avanti, ma la parità dei membri non è ancora la soluzione. Per non parlare del fatto che i componenti non togati sarebbero ancora di nomina direttamente parlamentare, cioè non latamente politica ma strettamente partitica. Infine, nulla si dice nel ddl costituzionale sul merito delle sanzioni disciplinari che potranno essere inflitte: è un sospeso non da poco.
Non basta dire…
In conclusione, preveniamo un’obiezione. Il caso Natoli c’entra con i problemi costituzionali della giustizia perché è evidente che quanto accade ricorrentemente a palazzo Bachelet (sede del Csm) non è all’altezza della delicatezza della funzione giurisdizionale: lo scandalo Palamara lo aveva già dimostrato in misura eclatante. Un’incolpata che cerca l’illecito patrocinio di una giudice disciplinare per conclamare la risibilità della corrispondente procedura fa il paio con la medesima giudice disciplinare che trova normale suggerire alla sua imputata come meglio eludere le proprie responsabilità.
Se, però, qualcuno volesse dire che non c’è norma (compresa quella meglio congegnata e scritta) che non possa essere aggirata da una volontà cattiva, gli daremmo pienamente ragione. Solamente, questo non basterebbe a giustificare il perdurare di un regime che dimostra di non funzionare affatto.
Corrado Cavallotti è laureato con lode in Giurisprudenza all’Università Cattolica. Ha vinto il Premio Gemelli 2012 per il miglior laureato 2010 della Facoltà di Giurisprudenza di Piacenza. Ama la storia, la politica ed è appassionato di Chiesa. Scrive brevi saggi e collabora con il periodico Vita Nostra.